Sono ormai molti anni che la finanza ha – come si usa dire
nel brutto gergo dei tecnici – un problema “reputazionale”.
Le motivazioni per questa lettera scarlatta non mancano,
nel passato più o meno recente come nel presente, e non
è necessario elencarle nuovamente qui. Vale invece la pena di
ricordare che esiste una finanza buona di cui non si sente mai
parlare che sembra non conoscere crisi e ha scopi redistributivi
e solidali: che per esempio incentiva e contribuisce fattivamente
allo sviluppo delle aree meno fortunate del pianeta e
dell’economia reale; e che infine vale ben 450 miliardi di dollari
Usa l’anno (la stima è riferita al 2017).
Questa finanza nasce dal basso ed è democratica e spontanea:
anche se è un piatto troppo ghiotto per non essere intercettata
da intermediari di vario genere (non solo bancari), che infatti
applicano commissioni piuttosto alte sui trasferimenti di
denaro. Questa finanza buona è rappresentata dai milioni di
rivoli che costituiscono le rimesse dei migranti di tutto il
mondo inviate nei paesi di origine. Il fenomeno è antico come
l’emigrazione, ma ha assunto negli ultimi tempi dimensioni
gigantesche e mai raggiunte prima. L’Ifad (il Fondo internazionale
per lo sviluppo agricolo) ha calcolato che oggi nel mondo
200 milioni di immigrati sostengono 800 milioni di familiari.
Le persone coinvolte complessivamente da questo fenomeno
sono dunque un miliardo. Il che significa, se si considera l’intera
popolazione mondiale, un essere umano su sette.
L’importanza delle conseguenze sociali, anzitutto in termini
di lotta alla povertà, discende direttamente dalla assoluta rilevanza
delle cifre. L’Ifad calcola che ogni anno i lavoratori
migranti guadagnino tremila miliardi di dollari. L’85% di
questo denaro resta nei paesi ospitanti (e ne alimenta abbondantemente
l’economia). Il restante 15% viene inviato nelle
aree di origine: e nonostante il fatto che questa quota rappresenti
meno dell’1% del prodotto interno lordo dei paesi ospiti,
costituisce un contributo essenziale per il sostegno della parte
meno sviluppata del pianeta.
Se poi si allarga l’orizzonte temporale considerando le previsioni
relative al periodo 2015-2030 si comprende ancora
meglio la valenza di questo fenomeno. I valori in gioco schizzano
alla cifra astronomica di 6.500 miliardi di dollari indirizzati
verso i paesi a basso o medio reddito. Tanto per farsi un’idea:
è oltre il triplo di quanto arriva complessivamente al
mondo in via di sviluppo attraverso gli aiuti ufficiali.
Sollevare obiezioni sull’importanza di questi numeri è quindi
davvero arduo. Ma qualche margine di dubbio potrebbe
riguardare la possibilità di mantenere a lungo ritmi così incalzanti.
L’ipotesi che si tratti di una fiammata dovuta a qualche
causa estemporanea si può tuttavia escludere se si guarda agli
andamenti demografici: “Dal momento che l’età media della
popolazione nei paesi sviluppati è in continuo aumento –
spiega infatti Pedro de Vasconcelos, autore di un approfondito
rapporto Ifad1 – si stima che la richiesta di lavoratori migranti
continuerà a crescere anche nei prossimi anni”.
Le rimesse sono un fenomeno
precipuamente asiatico
Il fiume di denaro delle rimesse è destinato quindi a fluire
copioso per lungo tempo, e con ogni probabilità a incrementarsi
ulteriormente, proseguendo un trend che nel recente passato
è stato molto brillante. Nell’ultimo decennio le rimesse
sono cresciute con una media annuale del 4,2 per cento. Tra il
2007 e il 2016 il flusso annuale è così passato da 296 a 445
miliardi di dollari. L’aumento complessivo delle rimesse nel
periodo ammonta al 51%, mentre i flussi di immigrazione
sono saliti del 28 per cento. Nell’ipotesi – conservativa – di
un mantenimento del ritmo attuale, si stima che nel periodo
2015-2030 i migranti invieranno nei paesi di origine 6.500
miliardi di dollari.
Si tratta, come è evidente, di numeri che meritano massima
attenzione: ma dietro alle cifre nude e crude, pur di entità così
imponenti, ci sono questioni ancora più rilevanti. Sono quelle
che attengono alle tante domande legate a un fenomeno che è
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?????saggi e dibattiti
Il volto umano della globalizzazione
????? Guido Plutino
Le rimesse dei migranti
1 Sending money home: contributing to the sustainable development
goals, one family at a time.
stato efficacemente definito “il volto umano della globalizzazione”:
a cosa servono esattamente le rimesse? Come vengono
utilizzate da chi le riceve? In quali aree finiscono? Quali
sono gli effetti positivi e i problemi ancora da risolvere? Tentare
di trovare delle risposte porta anche a smascherare la
vacuità di alcuni luoghi comuni.
Chiedersi a cosa servono le rimesse può sembrare inutile. La
risposta più immediata – servono a mantenere sopra la soglia
di indigenza i milioni di persone che le ricevono – è certamente
vera: e tuttavia non esaurisce la questione. I 200 dollari
che in media vengono incassati mensilmente da ogni famiglia
di origine del migrante rappresentano il 60% del suo reddito
complessivo. Servono per tre quarti a coprire i bisogni immediati,
ma il restante 25% viene accantonato per altri scopi
(istruzione dei figli, acquisti importanti, iniziative imprenditoriali
e così via).
Questo comportamento “risparmioso” – per niente scontato in
paesi a basso o medio reddito caratterizzati da situazioni
sociali molto disagiate – apre una serie di riflessioni sulla funzione
di volano dello sviluppo svolta da questo grande fenomeno:
funzione che però risulta attenuata da alcuni squilibri.
Il principale è l’asimmetria nella distribuzione geografica dei
flussi, con una pronunciata concentrazione in alcune aree.
Nonostante il fatto che l’ammontare dei trasferimenti superi i
100 milioni di dollari annui in ben 100 paesi, dall’analisi Ifad
emerge infatti con chiarezza che le rimesse sono un fenomeno
precipuamente asiatico. Qualche numero ancora per sostenere
questa affermazione: considerando i 445 miliardi di dollari
inviati dai migranti nelle zone di origine durante il 2016, più
della metà (il 55%) ha raggiunto la regione Asia-Pacifico (con
Cina e India in prima fila), mentre nell’area America Latina-
Caraibi è stato inviato il 16% dei flussi e un altro 13% ha raggiunto
l’Africa. Oltre alla ripartizione geografica non va trascurata
la distribuzione delle rimesse tra zone urbane (che
raccolgono il 60% del totale) e zone rurali (nelle quali finisce
il restante 40%).
Per evitare che l’esame risulti ancora troppo grezzo è poi
necessario aggiungere almeno altri due elementi: il numero
dei migranti suddivisi per zona di provenienza e l’andamento
delle rimesse nelle diverse aree negli ultimi anni. Il rapporto
Ifad viene ancora una volta in aiuto: “L’Asia è la principale
regione di origine con 77 milioni di migranti, 48 dei quali
restano all’interno dell’area. Negli ultimi dieci anni le rimesse
verso Asia-Pacifico si sono incrementate dell’87%, mentre il
numero di migranti è aumentato solo del 33%”. Quest’ultimo
dato è probabilmente il più interessante, dal momento che
testimonia efficacemente la tendenza a risparmiare e inviare a
casa sempre più denaro. Cosa che avviene anche in altre aree,
ma con intensità nettamente inferiori. L’area America Latina
– Caraibi (da cui provengono 33 milioni di migranti, il 18%
del totale) nel 2016 ha raccolto rimesse per 73 milioni di dollari,
e rispetto a dieci anni fa la crescita è stata del 18 per
cento.
A fianco dell’eccessiva concentrazione geografica c’è poi una
seconda questione, più importante di quello che potrebbe
sembrare a prima vista: i costi di trasferimento delle rimesse.
Anche in questo caso i numeri sono chiari, così come gli
effetti: ma non esistono rimedi semplici a una situazione che
presenta diversi aspetti complessi. Gli alti oneri di trasferimento
sono un problema antico. Vent’anni fa i costi ammontavano
in media al 15% degli importi trasferiti, con punte che
arrivavano al 20%: in pratica inviare a casa 200 dollari
costava al migrante fino a 40 dollari. Da allora si è avviato un
processo di riduzione che ha portato il costo medio a 15 dollari
(il 7,5%). L’obiettivo fissato per il 2030 da Nazioni Unite
e altre organizzazioni internazionali prevede di scendere a un
costo di trasferimento pari al 3% (6 dollari su una rimessa da
200 dollari), con un risparmio complessivo per i migranti di
20 milioni di dollari.
Le banche finora non hanno mostrato grande
interesse a offrire servizi ad hoc per le rimesse
La compressione dei costi è necessaria perché questi rappresentano
un freno all’integrazione economica dei migranti e
quindi all’inclusione sociale. Ma d’altra parte quando si parla
di costi occorre tenere presente che questa etichetta viene
applicata a elementi molto diversi. A fianco delle commissioni
che rappresentano i guadagni degli intermediari si trovano
infatti gli oneri legati alla lotta al riciclaggio di denari
illeciti e al finanziamento del terrorismo, sempre in cerca di
canali poco sorvegliati. E questi oneri non solo sono incomprimibili,
ma risultano in crescita.
Inoltre, se lo sviluppo tecnologico è un buon alleato per la
riduzione dei costi, sull’altro piatto della bilancia pesano sfavorevolmente
alcuni ritardi degli operatori di mercato che si
potrebbero definire “culturali”. Ancora una volta è necessario
chiamare in causa le banche, che finora non hanno mostrato
grande interesse a offrire servizi ad hoc per le rimesse. Le
aziende di credito non sono andate oltre l’applicazione delle
commissioni più elevate previste dal listino, mostrando così
di non avere ancora coscienza del fatto che i migranti rappre-
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sentano un interessante mercato potenziale per la finanza.
Al di là dei servizi di money transfer c’è infatti un mondo
intero da scoprire, e quasi tutto da “colonizzare” con prodotti
e servizi studiati su misura. Secondo valutazioni del rapporto
Ifad sei migranti su dieci accantonano risorse e quattro su
dieci sono titolari di un conto corrente. Manca però il passo
successivo, cioè la disponibilità di prodotti di risparmio adatti
a loro (finanziamenti a breve termine, assicurazioni con caratteristiche
e coperture utili a fronteggiare i rischi tipici dell’incertezza).
Oltre alla possibilità di costruirsi una storia creditizia
per ottenere prestiti a lungo termine.
Senza dubbio per i migranti riuscire a essere considerati
clienti potenziali dell’industria finanziaria è solo una forma
discutibile, grezza e insufficiente di inclusione sociale. Ma –
verrebbe da dire – è sempre meglio di niente. Specialmente se
si riesce a trasformare nel primo passo di un lungo percorso.
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