Imprese culturali e creative: Sottosegretario Borgonzoni, “Per noi realtà fondamentali, in arrivo altri fondi MiC”

«Le imprese culturali e creative sono sempre più centrali nelle politiche del Ministero. Rappresentano la base della nostra cultura e un importante motore di crescita sia culturale che economica del Paese. Dopo i 40 milioni di euro investiti insieme al Ministero dello Sviluppo economico – dove vedremo riconosciuto per la prima volta l’artigianato artistico, mentre per quanto riguarda la moda sono state inserite anche le specificità fino ad oggi escluse – e il bando in uscita da 155 milioni di euro per la digitalizzazione e la transizione verde dell’intera filiera, vi sarà un finanziamento legato ai Borghi del valore di 200 milioni di euro, a cui queste imprese potranno accedere presentando progetti di rigenerazione culturale e sociale. Stiamo lavorando inoltre già da mesi insieme al Mur al sostegno di una cordata italiana che ha risposto al bando dell’Unione Europea per l’istituzione della prima Comunità di conoscenza ed innovazione dedicata alle Industrie Culturali e Creative cui sono destinati 150 milioni di euro nella programmazione 2021-2027». Così il Sottosegretario di Stato per la Cultura Lucia Borgonzoni.

L’Europa nel ricordo di Stefano Rodotà

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 9 Gennaio 2014

Nel suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.

Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse. che la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights, che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.

Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.

Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?

Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.

Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.

Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.

A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il New Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.

(10 gennaio 2014)

«Oggi più che mai, è sempre l’ora di tornare a Voltaire» di Eugenio Scalfari (2019)

Il crollo dei valori. La governabilità dei popoli. E l’elogio della tolleranza. Vent’anni dopo la prima edizione, l’immaginario dialogo con il filosofo dei Lumi è ancora più d’attualità

Il mio libro intitolato “La ricerca della morale perduta” fu pubblicato nell’ottobre del 1995. Dopo oltre vent’anni lo ritrovate ora nelle librerie e nelle edicole, insieme al nostro giornale. Nel frattempo a me è venuta la voglia di anticiparvene alcuni aspetti e ragionamenti che potranno in qualche modo esservi utili, sia per condividerli e sia eventualmente per rifiutarli. Dando luogo così a un vostro modo diverso di ragionare, mettendo in moto la mente e la vostra logica spirituale.Comincio col trascrivere due sentenze della logica e dell’esperienza che appartengono a due grandi scrittori e che troverete nella prima pagina del libro. La prima è di Paul Valéry. Eccolo: «Da dove può venire l’idea che l’uomo è libero? O l’altra per cui non lo è? Non so se per cominciare questa controversia sia stata la filosofia o la Polizia».

La seconda citazione è di Isaiah Berlin: «Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli; ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli; una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e meno capaci hanno per una vita decente».
Non si poteva dir meglio per presentare un libro che ha quel titolo. Al centro del volume c’è un incontro, ovviamente immaginario, tra me e Voltaire. È interessante poiché io chiedo a Voltaire come la pensa sulla morale e mi faccio rispondere usando parole che sono sue citazioni, e illustrano la filosofia volterriana e la sua seria e al tempo stesso mondana intellettualità.

Si parla di molte cose nel libro che ovviamente lascio a voi leggere, nella speranza che lo farete. Ma una citazione conclusiva mi permetto di fornirvela oggi: in modo che comprerete il libro già preparati alla sua lettura e ai suoi contenuti. La citazione che qui trascrivo porta il titolo “Epilogo dove l’autore disserta sul crollo dei valori”. Ed ecco di seguito la parte principale del testo suddetto.

«Il crollo dei valori, sì, questo è il tema sul quale vi intratterrò. Siete venuti in buon numero, vedo, e certamente per l’interesse che l’argomento suscita. I valori sono di grande ausilio all’opera di ciascuno di noi; senza di essi sarebbe molto più difficile governare gli uomini e avviarli verso ideali positivi poiché gli uomini orienterebbero i loro comportamenti soltanto sulla base degli istinti elementari che promanano dalla loro fisicità e non riuscirebbero a tirar su il muso da terra se non di pochi centimetri. Ma voi siete preoccupati: avete infatti la sgradevole sensazione che i vecchi valori siano caduti dal cuore e dalla mente degli uomini mentre non sembrano esserne nati i luoghi che le tengano il posto. E voi sentite crescere la vostra impotenza: gli individui e le comunità eventualmente affidati alle vostre cure non reagiscono più nei modi previsti, le loro azioni sono sempre più erratiche, il sentimento dei doveri è diventato flebile, tra poco scomparirà del tutto mentre già vigoreggia quello dei diritti. Diritti anarchici tuttavia e non, come sarebbe auspicabile, collegati tra loro da un’architettura logica che li tenga insieme e serva a costruire una figura dignitosa di uomo socievole.

Ebbene, lasciatemi dire che questo vostro malessere è in larga misura infondato per almeno tre buone ragioni.
La prima è che l’ormai famigerato crollo dei valori del quale si fa un gran discutere agli angoli di tutte le strade che non c’è affatto stato, è una figura retorica inventata da un debole pensiero storico e sociologico che non sapendo spiegare i mutamenti della società si è rifugiato dietro un’immagine volutamente catastrofale che dovrebbe fornire la motivazione di tutti gli enigmi dell’epoca.

La seconda riguarda la governabilità dei popoli che non è affatto diventata così impraticabile come voi lamentate, ma anzi tende a semplificarsi perché sussidiata da strumenti appropriati. La terza infine concerne direttamente il vostro ruolo, la vostra posizione e vorrei dire il vostro destino nella società che si affaccia al terzo millennio della nostra Era. Voi siete paurosi che quel destino stia per concludersi, che non ci sia più bisogno di voi in una società automatizzata, affidata alle macchine e al tempo reale anziché a quello della memoria storica e dell’identità del quale voi siete stati fin qui i custodi.

Io credo in tutta sincerità che questa paura sia priva di fondamento. Voi siete più necessari di prima; voi siete indispensabili. Ma dico di più: nella storia delle élites – passatemi il termine – voi rappresentate un miracolo. Vi siete gradualmente spogliati di ogni inutile ideologia. Restano gli ideali che sono di solito ben motivati. Nella nostra società occidentale, a mio avviso, nessun trauma sociale, economico, politico è alle viste. Ci sarebbe potuto essere tutt’al più un trauma morale, ma voi avete anticipato. Avete inventato la prassi, avete cosalizzato la società, avete sostituito l’acciaio con la plastica non soltanto nell’industria ma nei caratteri.

Perciò potete esser tranquilli: una società fondata su valori di plastica è talmente flessibile da poter sostenere ogni urto; è una struttura antisismica per definizione. Del resto la triade che avevate coniato di libertà, eguaglianza, fraternità, garrisce ancora sulle bandiere della civiltà occidentale ma i contenuti che essa esprime sono notevolmente cambiati.

Nel preparare questa mia dissertazione ho dovuto per prima cosa analizzare il significato autentico delle due parole che ne compongono il titolo. E anzitutto la parola crollo. Sembra facile configurare un crollo che è un qualcosa che vien giù. Ma che genere di qualcosa? Tutti i gravi vengono giù a causa della forza di gravità e infatti parliamo di caduta ma non necessariamente di crollo. Perché vi sia un crollo ci vuole un qualcosa che abbia non solo un peso ma si configuri come un’impalcatura, un sistema, un’architettura, vorrei dire come una logica. Quando un sistema si decompone noi assistiamo ad un crollo. Per evitarlo o allontanarlo raccomando dunque strutture leggere, moralità elastiche, caratteri sperimentali.

Sulla parola valore si fa anche molta confusione, le si danno al tempo stesso contenuti economici, morali, ideologici. I valori finiscono così per essere tutto e nulla, un modello cui riferirsi, un metro con cui misurare, un criterio di giudizio. Si parla indifferentemente di valori patriottici, di valori cristiani, di valori liberali, di valori comunisti, di valori occidentali, di valori militari, di valori patrimoniali e di valori di Borsa. Bisogna dunque fare un po’ di chiarezza.

Quando ci si riferisce ad oggetti e a persone ridotte nella condizione di oggetti perché poste sotto il dominio di altre persone, il valore esprime il grado di utilità che l’oggetto fornisce al soggetto che lo usa. Se ci si riferisce invece ai comportamenti di persone libere, il loro valore misura l’utilità sociale che una determinata comunità può ricavarne. Passiamo così da una nozione economica del valore ad una nozione morale. Ma chi giudica l’utilità sociale dei comportamenti? Questa è una buona domanda da porre a voi che siete e rappresentate la classe dirigente di questa civiltà liberale, democratica, tecnologica, che si affaccia sul bordo del terzo millennio.
In punto di principio a emanare quel giudizio dovrebbe essere la società, cioè il complesso delle persone. Ma chi parla a nome della società? Qual è la sua voce autentica e come si esprime?

La società in quanto tale non ha una voce autentica che possa esprimere giudizi di valore sui singoli comportamenti. Ma esiste un’opinione pubblica. E che cos’è l’opinione pubblica se non appunto quell’inafferrabile, indefinibile e tuttavia potentissima fonte del giudizio sull’utilità sociale del comportamento?
Dunque è l’opinione pubblica l’organo che definisce i valori, li alimenta, li fa declinare, li rinnova e attraverso questo immane e ininterrotto lavoro fornisce il metro sul quale apprezzare i comportamenti degli individui, delinea una morale alla quale tutti debbono riferirsi ed esprimere un sistema coerente che costituisce al tempo stesso la forza vitale della società e il suo scudo protettivo. Ma chi è l’opinione pubblica? Tutti noi siamo opinione pubblica messi insieme e tutti noi siamo al tempo stesso liberi e servi di qualche cosa che ci supera e della quale siamo strumenti.

Padroni e servi, questa è la nostra condizione. È bene che ne siamo lucidamente consapevoli poiché quello è il solo modo per sviluppare la nostra intelligenza e contenere, perdonatemi la franchezza, la nostra non eliminabile stupidità.

Siamo servi d’un valore autonomo da tutti gli altri, che con gli altri non fa sistema e la cui presenza è permanente, quale che sia il contesto dentro il quale la società storicamente si colloca. In realtà la nostra morale è il potere: esso è la pre-condizione perché un qualsiasi sistema di valori possa sussistere per informare di Sé una determinata società.

Il potere dunque rappresenta il valore primario senza il quale nessuno degli altri potrebbe neppure esser pensato. Ma il potere è lo Stato, la legge, la premessa della convivenza, il notaio del contratto sociale. Il potere garantisce al di sopra e al di là della felicità dei singoli, la felicità più duratura della comunità e quindi della specie che è composta di individui socievoli. Dovete rivendicare con orgoglio e sforzarvi di esserne degni, quel potere che si risolve in prima istanza in un accrescimento della vostra volontà di potenza individuale ma infine in una maggior dose della vostra individuale felicità rispetto a quella di tutti gli altri vostri consimili. Voi conoscete alla perfezione il pericolo del potere e quindi dovete avere abolito le ideologie. Il famoso crollo dei valori siete stati voi a provocarlo nel momento in cui avete laicizzato il potere, lo avete svestito di ogni sacralità per farne un elemento di tecnica sociale.

Io credo che voi dobbiate ora ripristinare qualcuno dei vecchi buoni valori d’un tempo, a vostra protezione e quindi nell’interesse di tutti. Perciò all’opera: Nascitur novus ordo.

Parliamoci infine con chiarezza: il vero e unico valore socialmente apprezzabile è la tolleranza della quale mai come ora abbiamo assoluto bisogno. Essa si rafforza quando sia appaiata con una robusta dose di ipocrisia sociale e individuale. L’elogio della tolleranza fa tutt’uno con quello dell’ipocrisia: sarà bene ricordarlo a scanso di errori futuri e funesti».

Come vedete non sono molto ottimista, ma spero con tutta la forza morale della quale dispongo di sbagliarmi, nell’interesse di tutti.

Comprate il libro: spero che vi interessi e magari vi diverta anche un po’.

DI SEGUITO I MIEI COMMENTI ALL’ARTICOLO

Giuseppe Filippi

Prendere atto e comprendere pienamente la situazione che attraversa il Paese, impone una presa di coscienza forte. Tutti avvertono ormai il deficit spaventoso di una classe dirigente che non è all’altezza dei compiti che, invece, la contemporaneità impone. Lasciare il Paese in questa condizione senza intervenire potrebbe costituire una grave responsabilità per tutti, ma ancor dipiù per noi che, per naturale vocazione culturale, veniamo da esperienze professionali e da mondi che hanno sempre dato al paese i migliori elementi della sua classe dirigente. Da oltre 25 anni questo Paese ha potuto sperimentare tutte le differenti genie di classe dirigente alla guida del Governo: Politici, venuti con la cosiddetta seconda Repubblica, da ogni schieramento (destra, centro, sinistra), nessuno escluso, Professori (tecnici) e Magistrati. La scena alla quale abbiamo assistito è stata sempre la stessa: nessuno è……

Giuseppe Filippi

E SE RIPARTISSIMO DALLE CULTURE POLITICHE?

Provare ad uscire dalle secche della ragione, e dalle nebbie della storia, riscoprendo i fondamentali della cultura politica sui quali si è imperniato tutto l’occidente.

di Giuseppe Filippi

La gran parte dei paesi del mondo sembrano aver perduto la bussola. Hanno abbandonato ogni tracciato di quello che era stato realizzato nel ‘900 in termini di sistemi di governo, siano essi democratici che conservatori.

Cosa è successo dunque a questo nostro mondo, che si è venuto determinando attraverso l’arco degli ultimi 2500anni? Che si era ridato una fisionomia nuova, nata geopoliticamente da dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale?

Perché nel corso dei secoli gli uomini si sono sempre affrontati, scontrati, uccisi per dei principi, per dei valori, per senso di sopraffazione e dominio, per pura avidità, mentre oggi sembrano condurre solo o prevalentemente guerre

Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo


Borghi, online l’avviso pubblico MiBACT per la rigenerazione culturale, turistica ed economico – sociale dei piccoli Comuni https://www.beniculturali.it/comunicato/borghi-online-lavviso-pubblico-mibact-per-la-rigenerazione-culturale-turistica-ed-economico-sociale-dei-piccoli-comuni

Dal Ministero dei beni culturali

Cinque miliardi di euro per il turismo e la cultura. Il Consiglio dei Ministri ha approvato nel contesto del decreto legge Rilancio, su proposta del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Dario Franceschini, importanti misure per il sostegno ai settori della cultura e del turismo, gravemente colpiti sin dagli inizi dell’emergenza coronavirus a causa della significativa contrazione degli arrivi internazionali a cui si sono poi aggiunte le chiusure dovute alle misure di contenimento del contagio. L’attenta fase di ascolto delle rappresentanze delle diverse categorie della filiera turistica e di quella culturale, che insieme producono il 15% del PIL nazionale, ha portato alla elaborazione di questi provvedimenti che tengono in gran parte conto delle esigenze manifestate.
“Tutti i settori hanno sofferto duramente in questa crisi – ha dichiarato il Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini – ma il turismo e la cultura sono quelli che ha pagato maggiormente le conseguenze dell’epidemia. Il decreto Rilancio prevede interventi per sostenere le imprese turistiche e culturali, dai crediti di imposta per gli affitti ai ristori per gli alberghi e le aziende con grandi perdite di fatturato sino all’allungamento degli ammortizzatori sociali, così come per la sanificazione e l’adeguamento delle strutture alle prescrizioni sanitarie dovute. Senza scordare la promozione turistica con fondi destinati al turismo interno a partire dal bonus vacanze, che da solo vale circa 2,4 miliardi di euro, e le tante semplificazioni come quella per i tavolini di bar e ristoranti che incentiveranno i consumi all’esterno per una ripresa più sicura”.
Di seguito le slide 

Documentazione:

DLRilancio_pacchettoTurimoCultura
(documento in formato pdf, peso 4192 Kb, data ultimo aggiornamento: 14 maggio 2020 )

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L’impegno per la “Res Publica”

Era il 2008, quando in America era già scoppiata la crisi dei mutui sub prime e gli effetti si erano abbattuti, subito dopo anche sui conti delle banche, dei fondi previdenziali, delle compagnie assicurative e dei fondi comuni d’investimento italiani. La follia di una finanza spregiudicata che aveva confezionato titoli tossici, stava devastando il sistema finanziario mondiale. La reazione a catena metteva ancora di più in risalto la globalizzazione, quella di un mercato che non vuole, e che non ha regole, tanto le classi politiche si sono votate, di fatto, al liberismo più sfrenato.

Globalizzazione, una parola prima tanto osannata oggi tanto temuta, è un fenomeno con il quale siamo entrati in confidenza solo dalla fine del secolo scorso. In realtà è una dimensione con la quale l’occidente ha avuto a che fare già dall’espansione dell’Impero Romano sotto Traiano (II secolo d.C.).

E poi, via via, con i viaggi di Marco Polo in Cina, verso la fine del XIII secolo, con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492; con le esplorazioni di Vasco de Gama che tentò la navigazione diretta fino all’India e Ferdinando Magellano, il primo a tentare la circumnavigazione del globo.   

La conquista di altri stati e il loro asservimento a Roma prima e agli altri Paesi colonialisti dopo, favorì lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e i conseguenti scambi commerciali che svilupparono le interconnessioni economiche e culturali tra paesi lontani, fino ad allora vissuti in una sorta di autarchia.

E’ evidente che la globalizzazione è il dominio dei poteri potenti su quelli più fragili. Oggi i potenti della finanza hanno sottomesso gli stati più fragili e meno sviluppati alle regole ferree del dominio dei capitali su qualsiasi altra necessità sociale ed economica. Questa è la tragica sintesi della situazione in cui ci troviamo. Ricordo che quando il fenomeno iniziò a prendere piede, alcuni di noi obiettarono che questa ideologia, questo mantra della globalizzazione, avrebbe ridotto gli stati e le popolazioni a meri servitori di pochi grandi manovratori. Va da sé che fummo subito tacciati di essere dei vetero statalisti. In realtà facevamo solo delle elementari considerazioni di buon senso, ma soprattutto mettevamo in evidenza che l’arretratezza di alcuni paesi, nella competizione globale, poteva essere mitigata solo da interventi mirati dello stato in ambiti ben precisi, strategici, nei quali i privati non avevano interesse ad investire perché soggetti ad un rientro della redditività solo sui tempi lunghi. In definitiva niente di più e niente di meno di quello che proporrebbero degli economisti di stampo keynesiano e liberale. E noi ci univamo a questi. 

La situazione dell’Italia ora è giunta ad una situazione di stallo. Dopo oltre 25 anni dalla fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, abbiamo un paese ingessato, incapace di voltare pagina e programmare il proprio futuro alla luce dei cambiamenti che sono intervenuti nel frattempo. Il problema alla base di questo disastro è la mancanza di una classe dirigente all’altezza dei compiti che la contemporaneità ci pone. Questo è certamente uno dei primi temi che dovrebbe essere messo in un’agenda della politica e del nostro Governo in particolare. Risolvere questa problematica, seppure con i tempi non brevi che richiede, significa ripartire con il piede giusto. Significa rilanciare la passione civile per la “Res Publica”.

Oggi, per comprenderne la portata e il significato di questa locuzione basterebbe richiamare il pensiero di un grande pensatore e giurista vissuto nel I° secolo a.C., Marco Tullio Cicerone, il quale nel suo trattato politico “De re publica” ci dice: «”La res publica” è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione del diritto e per la tutela del proprio interesse». Ma ancor di più, lo dobbiamo intendere come un monito che ci richiama alla inevitabile compenetrazione dei destini dei cittadini, legati indissolubilmente al destino del proprio stato e della propria società.

Per questa ragione dovremmo farci una domanda e chiederci se il potere è qualcosa che debbono conquistarsi solo le giovani generazioni o sia materia più adatta ad essere dominata da persone esperte e sagge, diciamo in una parola dagli anziani? Non v’è alcun dubbio che i giovani hanno nelle vene il fuoco vivo della vita e del futuro, mentre gli anziani hanno un punto di osservazione della stessa posto su una traiettoria declinante. Oggi i giovani non provano più attrazione per la politica e, da anni, sono costretti a vedere di fronte a loro stessi una prospettiva che è peggiore di quella che hanno avuto i loro genitori. Le loro principali preoccupazioni sono quelle di cercare più certezze per il lavoro, per la famiglia, per l’ambiente, per la salute. Ciò giustifica, in una qualche misura, il loro allontanamento dalla cura e dall’interesse per la gestione della “Res publica” vista purtroppo come qualcosa di distante e ostile alle loro problematiche.

Ma questo non deve esimerci, istituzioni e società civile, dall’obbligo etico e morale di rilanciare con forza e con passione una grande fase di rinnovamento del paese, quello che potremmo definire un nuovo rinascimento. Tale progetto potrebbe essere ancora più forte se si riuscisse a coniugare le aspettative e la forza dei giovani con l’esperienza e la saggezza degli anziani in un nuovo patto intergenerazionale, ove ogni componente della società sappia fattivamente e responsabilmente dialogare con le altre. Come diceva Bertrand Russel: “L’educazione dovrebbe inculcare l’idea che l’umanità è una sola famiglia con interessi comuni

Il programma di lavoro e l’impegno che sta profondendo l’Associazione “Merita,” grazie ai suoi soci promotori, ma soprattutto animatori, mi sembra una sintesi perfetta che va esattamente nella direzione indicata da Russel.

Giuseppe Filippi – Roma 16 maggio 2020

I CITTADINI E L’EUROPA

Succede spesso in questi ultimi anni che si parli dell’Europa, del suo ruolo e del significato che ha per i cittadini comuni. Tuttavia, non si è riusciti a trovare un campo idoneo, atto a sviluppare un confronto fattivo, sia nella pubblica opinione che tra forze politiche.

Quello che riporto di seguito è il frammento di una discussione tra due cittadini che, per cultura e ruolo professionale, sono posti nella parte alta di una ipotetica scala della competenza e dunque della consapevolezza dei problemi nei quali sono immerse oggi l’Italia e l’Europa.

I due riflettevano sul tema della vicinanza delle istituzioni ai cittadini ed in particolare di quelle europee. Il tema è di grande importanza, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, che vede gli Stati dell’Unione Europea attanagliati sempre più da politiche fiscali e legislative asfissianti. Il problema però più devastante, almeno per paesi che si trovano in una condizione simile a quella dell’Italia, è quello dei continui vincoli a cui sono sottoposti i bilanci degli Stati, soprattutto in relazione all’ammontare del debito complessivo accumulato dai singoli paesi.

In particolare, in Italia, in questi ultimi anni, l’Europa viene vista come una congrega di tecnocrati aridi che guardano esclusivamente ai conti dei bilanci pubblici con una mentalità da semplici contabili. Le uniche ricette che sanno fornire, come risposte alla situazione economico finanziaria, sono sempre le stesse: tagliare il debito pubblico e risanare i conti dello stato. Infatti, negli ultimi tempi, ci hanno fatto conoscere anche la spending revue, andata di moda per diverso tempo qui in Italia.

Come si sa, l’Italia, nella gestione del debito pubblico, ha titolo di campione degli spendaccioni più dissennati. A ruota seguono altri paesi del sud dell’Unione Europea. I paesi del nord invece brillano per virtù e austerità nella spesa pubblica ed hanno un rapporto deficit/Pil molto migliore del nostro. 

Questi temi del rapporto deficit/Pil e debito/Pil hanno dominato la scena dei compiti principali assegnati all’Unione Europea. E’ evidente che i cittadini, di fronte a questa martellante campagna che ci proviene giornalmente dalle Istituzioni europee, non possono che avere una visione dell’Europa come matrigna e causa principale di tanti mali che affliggono le nostre economie e travagliano i ceti più deboli della società.  

Ora, non v’è dubbio che l’Europa soffra, essa stessa, di un deficit di tipo politico-culturale. In tutti questi decenni, durante i quali si sarebbe dovuta costruire un’Europa politica, si sono creati invece esclusivamente tanti salotti snob, soprattutto a Bruxelles, presso la Commissione Europea, tecnocratici, avulsi dalla realtà dei popoli e delle società dei singoli paesi partner dell’Unione. Come qualche cosiddetto sovranista alla Salvini ama dire, l’Europa ormai legifera su tutto, tranne che sui problemi concreti delle persone, per dedicarsi soprattutto a regolamentare inezie come il colore delle bustine con le quali si confeziona l’insalata.

Ma torniamo per un momento ad analizzare come quei due cittadini, di cui dicevamo all’inizio, vedono l’Europa. Una delle prime osservazioni che ponevano è quella che fino a poco tempo fa, i principali documenti dell’Unione Europea erano pubblicati al massimo in due lingue: francese e inglese. Poi di recente si è aggiunta quella tedesca. Ora la domanda sorge spontanea: se un’istituzione vuole dialogare con i propri cittadini come fa a non parlare la loro stesa lingua? E ancora, i tanti parlamentari, eletti nei singoli paesi, possibile che in tutti questi anni, non abbiano mai sentito la necessità di far tradurre gli atti delle istituzioni europee nelle lingue dei loro Stati? Come se ciò non bastasse, fino a qualche anno fa nei canali satellitari si poteva vedere una tv, almeno in Italia, che parlava esclusivamente delle istituzioni europee e della loro attività. Perché oggi questo canale è sparito, o almeno non lo vediamo sul digitale terrestre che è quello che guardano il 99 percento dei cittadini? Perché è sparito, almeno qui in Italia, anche un altro canale televisivo che parlava dei rapporti tra l’Europa e i paesi che affacciano sul Mediterraneo? E per concludere, che fine ha fatto l’avvio di Euromed, l’istituzione creata dall’Europa l’anno scorso, che dovrebbe avere tra l’altro la propria sede qui in Italia? Era stata istituita proprio per guardare con maggiore attenzione i rapporti dell’Unione Europea con i paesi del Mediterraneo e favorirli. Questa iniziativa andrebbe rilanciata e rafforzata, soprattutto alla luce dei continui e inarrestabili sbarchi sulle nostre coste di tanti poveri esseri umani disperati, che negli ultimi tempi sono rallentati solo per la paura del Corona virus.

Ora, per evitare di essere tacciati di fare solo lamentele, è giunto il momento di alcune piccole proposte.

La prima è quella di introdurre l’obbligo di corsi di lingua inglese nelle scuole, negli uffici pubblici e nelle aziende, con l’esclusione di quelle più piccole per ovvie ragioni organizzative, ed organizzarli sia in aule fisiche che on-line;  ed infine, di redigere i principali documenti sia in italiano che in inglese.

La seconda è quella di reintrodurre sul digitale terrestre uno o più canali TV dedicati all’Europa e alle sue istituzioni.

La terza è la pubblicazione tutti i documenti, dell’Unione Europea nelle lingue dei singoli Stati, con a fianco il testo in lingua inglese, per consentire a tutti i cittadini il libero accesso alle informazioni. Un provvedimento di questo genere tra l’altro crediamo che darebbe un grande contributo anche ad evitare che i paesi, e l’Italia in particolare, non presentino progetti per accedere ai fondi europei, soprattutto da parte di soggetti più piccoli come piccole imprese, cittadini, piccoli comuni e così via.

Ma i due amici, chiacchieroni e amanti di farsi domande hanno proseguito con altre riflessioni.

  1. La prima è stata quella di ripercorrere le ragioni storiche e politiche che portarono alla nascita delle prime Comunità Europee con la firma dei trattati di Roma del 1957. Allora sembrarono avviare e realizzare il tanto agognato sogno europeista di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. Ma oggi quanta parte hanno realizzato di quell’idea di Europa?
  2. La domanda successiva è stata quella del perché popoli e Stati così diversi tra di loro, per storia e cultura, abbiano creato un’Europa in forma di “Unione”.
  3. E ancora, quanto i popoli hanno assimilato l’idea di essere parte integrante del loro stato di appartenenza e di essere al contempo anche cittadini dell’Unione Europea, di questo organismo politico più ampio e ancora troppo lontano nella loro percezione?

Con la firma dei Trattati istitutivi dell’Unione Europea, gli Stati aderenti hanno ceduto una parte della loro sovranità che alcuni dicono essere ancora insufficiente mentre altri, come i cosiddetti sovranisti, al contrario, vorrebbero ridurre il peso delle istituzioni europee. E qui si apre un’ulteriore riflessione circa il ruolo dell’Italia, inserita nell’Unione Europea, e nel confronto con il resto del mondo, così come si è venuto evolvendo negli ultimi decenni, soprattutto sotto i profili politico-economico e strategico-militare. Ora, che ruolo può avere un singolo stato che abbia le caratteristiche dell’Italia alla luce dei fenomeni che hanno caratterizzato il contesto internazionale, soprattutto mediante la globalizzazione economica e finanziaria? Come si porrebbe, l’Italia, di fronte alla modificazione dei rapporti di forza fra le due super potenze (USA e URSS), che avevano assunto la leadership globale subito dopo la Seconda Guerra mondiale? Come si potrebbe inserire nel giogo tra le vecchie e le nuove super potenze mondiali come Cina, India e Brasile?

Alla prima domanda la risposta, probabilmente, era già insita nel Manifesto di Ventotene, il cui titolo era “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”.

Rispetto alla seconda domanda, relativa al tema “dell’Unione di Stati,” prima di dare una risposta, occorrerebbe preliminarmente farne delle altre. E cioè: Cosa hanno unito gli Stati, cosa volevano effettivamente unire, cosa si dovrebbe unire oggi, alla luce degli sviluppi che ci sono Stati a livello globale (Si veda da ultimo il dramma del Corona virus)? Ovviamente il confronto è aperto.  

Per quanto attiene alla terza domanda, credo che si possa concordare sul fatto che oggi nei cittadini prevalgano due desideri diametralmente opposti. Il primo, è quello di chi confida in un’Europa solidale e in un’area di grande pace. Il secondo invece, è quello di chi non vede l’ora di fuggirne via, perché la considera matrigna. E’ evidente che sia l’una che l’altra posizione sono figlie di una reazione essenzialmente emotiva. Invece, per dare forza e senso ad un’Unione Europea rinnovata, credo che occorrano una grande conoscenza delle regole su cui si fonda e una diffusa consapevolezza dei meccanismi che governano i rapporti tra Stati e Unione, in particolare di quelli che, opportunamente modificati, la potrebbero portare a guardare verso orizzonti più aderenti alle necessità di tutti i paesi membri e dei loro cittadini, che sono il cuore vero dell’Europa. A noi tutti sta il compito di non farli aspettare troppo.

Giuseppe Filippi

Roma 10 maggio 2020