Qualche opportuna riflessione prima delle elezioni europee

di GUIDO CRAINZ

Così l’europa ha creato i propri fantasmi. Troppa economia, poca politica, niente cultura E una silenziosa diffidenza verso i paesi dell’est.

Difficile comprendere appieno la crisi del progetto europeo se non se ne colgono le prime radici, di gran lunga precedenti alla crisi internazionale del 2008 e all’ingigantirsi dei flussi migratori. I suoi prodromi iniziano a manifestarsi già in anni apparentemente “trionfali”: dal 1989 del crollo del Muro al 1992 del Trattato di Maastricht, dal 1998 dell’euro al 2004, con l’allargamento dell’Unione a dieci nuovi paesi. Esce appunto nel 2004 “Il sogno europeo” di Jeremy Rifkin: esso «sta lentamente eclissando il sogno americano», scriveva Rifkin, e invece i germi della crisi potevano esser colti da tempo. Già nel 1990 ad esempio Bronislaw Geremek, uno dei leader più lucidi di Solidarnosc, vedeva profilarsi nei paesi post-comunisti i rischi del nazionalismo e del populismo, assieme alla tentazione di governi forti, proprio per la fragilità delle loro tradizioni democratiche. E sottolineava la necessità di una attenta gradualità nella transizione. In quello stesso 1990 Vaclav Havel osservava che le strutture europee esistenti erano in realtà europeo-occidentali, nate nella divisione precedente, ed era necessario ripensarle per dare corpo a una vera unificazione. Ben poco è stato fatto in questa direzione, e si aggiunga che lo smantellamento del sistema comunista avvenne spesso identificando arbitrariamente democrazia liberale e liberismo economico, come hanno sottolineato in varie forme Jacques Rupkin, Ivan Krastev, Bernard Guetta e altri ancora. Oltretutto mentre soffiava forte il vento del neoliberismo, non di rado con effetti devastanti. E vi furono poi altri limiti ed errori in quella transizione, soprattutto dove il dissenso e l’opposizione ai regimi comunisti erano stati deboli, se non assenti, e i problemi dunque si ingigantivano. Senza por mente a tutto questo non comprenderemmo appieno la parabola paradossale del “gruppo di Visegrad”, nato nel 1991 proprio per favorire il “ritorno in Europa” di quei paesi, per dirla ancora con Havel.
Le questioni sullo sfondo non riguardano però solo l'”Europa ritrovata” a est della Cortina di ferro, e si consideri l’avvio della zona dell’euro. All’indomani di esso Carlo Azeglio Ciampi annotava che era stato essenziale per l’Italia far parte dei “paesi fondatori”, ma era necessario ora un rinnovamento complessivo capace di investire non solo l’economia ma anche la cultura, i costumi, gli stili di vita. Ed Ezio Mauro osservava: è stato quasi inevitabile avviare l’unificazione «attraverso l’unico comun denominatore oggi possibile, quello della moneta» ma è urgente «dare un contesto istituzionale, culturale e politico a questa moneta. Perché rappresenti l’Europa e non soltanto un gruppo di Paesi comandati da una banca». Questo è mancato e altri rischi poi si aggiunsero, spesso connessi a una visione dell’allargamento come un bene in sé. A questo rinvia anche il tracollo della Grecia, che ha avuto origini e cause molto lontane: da un ingresso in Europa nel 1981 privo di verifiche reali (e con l’uso distorto dei fondi comunitari che ne seguì) sino a un’inclusione sostanzialmente precoce nell’eurozona. Ci si illuse sulla “pedagogia dell’euro”, ha osservato Lucio Caracciolo: «La nuova moneta avrebbe trasformato lo spirito di un popolo, le cicale sarebbero diventate formiche. Non è accaduto». Si aggiungano i processi connessi alla globalizzazione, con i prezzi pagati dalle fasce più deboli dei paesi sviluppati e con il crescere al loro interno delle divaricazioni sociali. Diventa più comprensibile allora il progressivo avanzare di partiti populisti e antieuropei nelle aree periferiche del vecchio continente, spesso impoverite dalle smobilitazioni industriali: qui l’Unione europea ha iniziato ad esser vista sempre più come veicolo di una globalizzazione sregolata che minaccia di travolgere le protezioni sociali garantite dallo Stato. Irrompe in questo scenario la crisi finanziaria del 2008: con le profonde insicurezze che alimenta, con gli sconvolgimenti nei vissuti, nei rapporti sociali, negli immaginari. E sull'”amarezza dell’Occidente”, ha osservato Edward Luce, le aspettative deluse pesano ancor più del declino reale. Le conseguenze sono ancor più marcate a est: si incrina allora il mito di un Occidente “naturalmente” florido e sembra emergere un’Europa sempre più “matrigna”, se non tiranna, in uno scenario profondamente mutato. Rivolgendosi idealmente al suo maestro, Ralf Dahrendorf, Jan Zielonka ha scritto: tu sei cresciuto nella Germania nazista ma hai assistito poi «allo sviluppo del welfare, all’azione di parlamenti capaci di regolare il mercato e all’epoca d’oro della stampa come luogo privilegiato del discorso democratico. La mia vita da adulto si svolge in paesi che smantellano i sistemi di welfare, con parlamenti che de-regolano i mercati e con Internet che è diventato il luogo essenziale della comunicazione». In questo mondo, conclude Zielonka, è inevitabile pensare che l’Europa e il suo progetto liberale debbano essere reinventati e ricreati: cercando di capire perché la crisi finanziaria internazionale si è trasformata in una crisi della democrazia europea. Si aggiungano poi altri segnali rimossi, nell’euforia dell’allargamento del 2004 (e mentre si prevedeva la sua rapida estensione a Turchia e Croazia): già la bocciatura della Costituzione europea nei referendum francesi e olandesi del 2005 segnava una battuta d’arresto decisiva, l’inizio di un’abdicazione. E la crisi del 2008 avrebbe mostrato tutta la fragilità di un progetto di unificazione basato largamente su processi economici, nell’illusione che favorissero di per sé l’unificazione politica. 
Si aggiunga infine un grande nodo, colto da Peter Schneider poco dopo l’ingresso in Europa dei paesi ex comunisti: vi è a Ovest, si chiedeva, la volontà culturale e politica di «realizzare realmente la riunificazione»? Non sembra davvero, aggiungeva: «Non viviamo affatto un clima comparabile al grande, vitale e fecondo scambio di idee che nel dopoguerra democratico della Europa occidentale animò e unì intellettuali tedeschi e francesi, inglesi e italiani». Rischia di rimanere in piedi così una “Cortina di ferro mentale”, concludeva. Ed è difficile negare che l’Europa occidentale abbia vissuto a lungo «con le spalle rivolte al muro di Berlino», per dirla con György Konrad. È cresciuta in modo realmente adeguato in questi anni la “qualità”, l’intensità della conoscenza reciproca? A me non sembra. È necessario inoltre misurarsi ancora con le lacerazioni del passato europeo e far avanzare confronti di memoria capaci di avviarne il superamento. Capaci di contrastare un’esplosione dei nazionalismi che in Ungheria e altrove ha portato anche alla riscrittura dei manuali di storia: e già il crollo delle “memorie di Stato” dei regimi comunisti aveva fatto riemergere visioni di sé e del passato mai sepolte, e sin dei peggiori fantasmi. Fantasmi che i traumi della globalizzazione sembrano a loro volta alimentare e che vanno combattuti con un impegno costante, non ignorati.
È difficile negarlo, nella crisi dell’Europa non mancano responsabilità del mondo della cultura: non potevano esser sottovalutati questi e altri fossati originati dalla storia, questi e altri terreni su cui tenere aperto un confronto serrato e continuo per andare oltre. Per costruire un tessuto di relazioni culturali, di dialoghi intellettuali e umani capaci di costruire una sempre più solida “rete di protezione” di fronte ai rischi costanti e oggi inaspriti di lacerazione. È un terreno che abbiamo frequentato troppo poco in questi anni ed è necessario riconoscerlo alla vigilia di elezioni che possono imprimere un ulteriore impulso alle derive disgregatrici: qualunque sia il loro esito, su quel terreno si giocherà comunque una partita decisiva. Se si giungesse davvero alla disintegrazione della Unione europea, ha scritto Ivan Krastev, forse non sarà frutto di una vittoria aperta delle forze antieuropeiste ma conseguenza involontaria della sua paralisi. E delle nostre inerzie.

Biblioteche eterne

14 Aprile 2019 Il Sole 24 Ore domenica

Tra passato e futuro. Le più innovative e maestose nascono in Cina, ma in Europa abbiamo le più affascinanti e stratificate, che hanno saputo diventare multimediali.

Nessuno ha mai osato immaginare l’estinzione delle biblioteche. Profeti di sventura per i libri invece ce ne sono stati tanti. A oggi smentiti, in verità: gli e-book non hanno avuto l’exploit ipotizzato a più riprese a partire dal lontano 2000. Forse allora i destini di biblioteche e libri sono legati: la rivoluzione digitale ha cambiato entrambi gli universi, ma nessuno dei due imploderà. Non verranno inghiottiti da alcun buco nero (quello appena fotografato dista 55 milioni di anni luce dalla Terra). Resteranno invece sempre in superficie, proprio come il suggestivo “orizzonte degli eventi” immaginato dagli astronomi osservando (con la mente) i buchi neri. Digitalizzazione «controllata» Da decenni ormai le biblioteche, specie quelle costruite a partire dal 1900, ospitano, accanto a volumi di carta, ogni sorta di testimonianza di attività culturale dell’uomo, con supporti, come per gli audiovisivi, che sono elettronici da ben prima della diffusione di internet. Le sale lettura si sono arricchite di postazioni multimediali e i libri più delicati sono stati digitalizzati. Ma c’è un problema: il progresso tecnologico non dà tregua e tra legge di Moore e obsolescenza programmata un processo di digitalizzazione dà garanzie di medio-lungo termine assai inferiori a un foglio di carta o di pergamena ben conservati. Una sfida, per bibliotecari e tecnici informatici, da affrontare programmando con molta attenzione una periodica revisione di supporti e lettori. Modello che non invecchia Le biblioteche non sono una specie in estinzione. La selezione naturale di Darwin vale anche per loro: sono cambiate per sopravvivere, si sono adattate quanto basta senza perdere di vista la loro missione. Conservare il sapere e condividerlo e tramandarlo. Sopravvive benissimo anche la funzione di oasi di tranquillità: le biblioteche universitarie, tra le più digitalizzate, continuano a essere il luogo preferito per studiare. E magari, ogni tanto, per fare amicizie o incontrare l’anima gemella. L’esempio della Cina Per convincersi della resilienza dell’invenzione della biblioteca, basta guardare a cosa sta facendo la Cina. «Con tutti i discorsi sul declino delle biblioteche in Europa e negli Stati Uniti, dove il tasso di alfabetizzazione sfiora il 100% della popolazione, si è tentati di dimenticare il resto del mondo – scrivono James Campbell e Will Pryce nel bellissimo volume pubblicato da Einaudi La biblioteca. Una storia mondiale –. Nei Paesi in rapido sviluppo il numero delle biblioteche è in crescita. La realizzazione di una biblioteca nazionale in grado di competere con quelle dei Paesi ricchi è considerata un simbolo di orgoglio nazionale e il segno che una nazione ha raggiunto la propria maturità economica». Non contenti della Biblioteca nazionale della Repubblica cinese aperta a Pechino nel 2008 – costruita accanto a quella, già imponente, completata nel 1987 – nel 2018 a Tianjin, a circa 100 chilometri da Pechino, è stata aperta una nuova biblioteca pubblica. L’edificio contiene 1,2 milioni di libri e ha una superficie di quasi 34mila metri quadrati, con un’architettura molto particolare. Al centro c’è un auditorium sferico, le pareti hanno una forma sinuosa e una struttura a gradoni con tripla funzione: delimitano gli spazi, sono le mensole su cui si trovano i libri e i ballatoi per muoversi da un piano all’altro e lungo i piani. Vista da fuori, la biblioteca ricorda la forma di un occhio… (segue)

Oneri informativi e pubblicitari per le imprese, le associazioni, le onlus e le fondazioni che percepiscono benefici di natura pubblica

La L. 4 agosto 2017 n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza) art. 1 commi 125-129 prevede, tra l’altro, che le imprese che abbiano ricevuto sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque vantaggi economici per un importo pari o superiore ad Euro 10.000,00, da parte di:
•Pubbliche amministrazioni e soggetti di cui all’art. 2-bis del D.Lgs 2013/33 (quindi anche società a controllo pubblico);
•Società controllate di diritto o di fatto, direttamente o indirettamente, da pubbliche amministrazioni, comprese le società con azioni quotate in mercati regolamentati e le loro partecipate;
•Società a partecipazione pubblica comprese quelle che emettono azioni quotate e dalle loro partecipate;

a partire dall’anno 2019 (per gli importi percepiti nell’anno 2018) indichino gli importi ricevuti nel corso dell’anno di riferimento (secondo il criterio contabile di cassa) nella nota integrativa del bilancio di esercizio e nella nota integrativa dell’eventuale bilancio consolidato, ove previsto, entro il termine di redazione degli stessi.

L’inosservanza di tale obbligo comporta la restituzione delle somme ai soggetti eroganti entro tre mesi dal predetto termine.

L’adempimento dovrà essere osservato anche negli anni successivi, sempre con riferimento all’anno precedente.

La norma, altresì, prevede l’obbligo di pubblicazione su siti o portali internet in capo ad associazioni, ONLUS e fondazioni che abbiano percepito sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque vantaggi economici per un importo pari o superiore ad Euro 10.000,00.
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TANTO RUMORE …SOLO CONFUSIONE

E SE RIPARTISSIMO DALLE CULTURE POLITICHE?

Provare ad uscire dalle secche della ragione, e dalle nebbie della storia, riscoprendo i fondamentali della cultura politica sui quali si è imperniato tutto l’occidente.

di Giuseppe Filippi

La gran parte dei paesi del mondo sembrano aver perduto la bussola. Hanno abbandonato ogni tracciato di quello che era stato realizzato nel ‘900 in termini di sistemi di governo, siano essi democratici che conservatori.

Cosa è successo dunque a questo nostro mondo, che si è venuto determinando attraverso l’arco degli ultimi 2500 anni? Che si era ridato una fisionomia nuova, nata geopoliticamente da dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale?

Perché nel corso dei secoli gli uomini si sono sempre affrontati, scontrati, uccisi per dei principi, per dei valori, per senso di sopraffazione e dominio, per pura avidità, mentre oggi sembrano condurre solo o prevalentemente guerre segrete, impalpabili, virtuali attraverso il web e la grande finanza?

Tutto ciò è avvenuto nonostante le grandissime trasformazioni della società, che hanno contrassegnato le grandi conquiste che hanno visto passare l’uomo dall’essere inquilino delle caverne e delle palafitte ad abitante di città organizzate e civili; a cittadino di centri attrezzati di ogni servizio per condurre una vita accettabile e talvolta persino agiata per gran parte della popolazione. Nonostante le grandi conquiste della scienza e della tecnica che hanno reso all’uomo la vita meno dura e più sicura, le società di tutto il pianeta stanno entrando in un vortice incontrollabile di folle ingovernabilità. Ci troviamo come il bambino che voleva raggiungere la cima del grattacielo e, una volta arrivato in cima, ebbe paura di guardare giù fino alla strada, perché non era abituato a quelle altezze.

I popoli sono stati sottomessi più con lo strumento della propaganda e della persuasione occulta, leggi informazione, che con la forza come avveniva un tempo. Non di meno, si sono sottomessi all’azione avviata da tempo su scala planetaria che ha ridotto ogni essere umano a semplice consumatore, nella migliore delle ipotesi, o addirittura in un nuovo schiavo, nel caso di sfruttamento dei lavoratori in quelle aree del mondo più povere.

Sembrano esserci dei casi di ribellione, come in Francia o in Venezuela, che provengono dalle fasce sociali più povere. Potrebbero essere spiragli di un rifiorire dei movimenti di popolo davanti alle grandi ingiustizie e angherie perpetrate dalle classi dominanti.

In quasi tutta Europa si stanno consolidando allarmanti forze antidemocratiche. Anche nelle democrazie più consolidate del mondo, come Gran Bretagna e Stati Uniti, i governi in carica sono guidati da capi di Stato e Primi Ministri che non hanno, neanche lontanamente, l’Aplomb di chi li ha preceduti.

Oggi gran parte dei popoli e dei giovani in particolare, si sono rifugiati nel nichilismo, che Umberto Galimberti nel suo libro “La parola ai giovani”, suddivide in passivo e attivo, ovvero tra chi ritiene che non vi siano più speranze per il futuro, chiudendosi nella rassegnazione e chi invece non vuole rinunciare ai propri sogni.

Ma volendo circoscrivere l’analisi all’occidente, bisognerebbe tornare alla storia di quella che è stata la culla di tutta la cultura occidentale: l’antica Grecia. Occorrerebbe riscoprire e far comprendere ai popoli il valore delle idee, come fecero Aristotele e Platone. Bisognerebbe insegnare loro che in assenza di un’elaborazione organica delle idee, cioè dello sviluppo del pensiero, ogni azione messa in campo corre il rischio di essere una pura reazione estemporanea riferita al momento contingente, e soprattutto, senza offrire una solida via di sviluppo creativo e ordinato della società.

Con la nascita della “polis” greca vedono la luce i concetti di “politica” e di “politeia” che altro non erano che tutto ciò che afferiva alla vita della polis, cioè, della società, ricomprendendo non solo le istituzioni più propriamente politiche, ma anche tutte le altre istituzioni mediante cui si organizzava la vita della polis, con un diretto riferimento al costume, alle consuetudini, alla morale, alla religione e alle forme di culto e al sistema educativo.

Proprio dall’antica Grecia si originò l’idea di “democrazia”, di questa straordinaria parola che ha animato per secoli l’anelito di intere generazioni di combattenti ed eroi, che nel corso dei secoli hanno portato la maggior parte dei paesi occidentali a farla propria, riconoscendole un valore irrinunciabile e superiore, rispetto alle altre idee di governo della società.

La politica, ma soprattutto il pensiero politico, come si sa, nel corso dei secoli hanno prodotto una vasta gamma di “Culture politiche”, di ideologie, di scuole di pensiero, di modelli sociali ed economici. E’ stata un’elaborazione lenta ma continua, che nel corso del tempo ha determinato un’osmosi tra i diversi filoni di pensiero sino a combinarli tra di loro con profonde contaminazioni. Basti pensare, esemplificando, alle primitive concezioni dello stato imperniate sulla monarchia, sull’impero, sul potere temporale della Chiesa, sull’aristocrazia, sulla borghesia, sulla classe operaia, sulla classe media, sulle elite… e così via, sino ad arrivare agli abomini delle idee che hanno sostenuto l’esistenza di una “razza superiore”.

Va da se che, non da oggi, l’occidente ha convintamente abbracciato il modello democratico, frutto anche e soprattutto di un innalzamento del livello culturale e delle condizioni economiche dei popoli, che si sono determinate nel corso dei secoli a partire, emblematicamente, dalla rivoluzione francese con il motto “Libertè, Egalitè, Fraternitè”.

Nei secoli precedenti le società e i popoli erano governati da modelli, come accennato prima, dittatoriali, dinastici, spesso violenti, reazionari e conservatori. Solo grazie alle elite borghesi illuminate, durante la rivoluzione francese, presero corpo le prime forme di emancipazione politica e sociale dei ceti più deboli. Mentre con la prima e seconda rivoluzione industriale, grazie soprattutto al grande contributo dato dalla scienza alla tecnica, si crearono le premesse per un miglioramento delle condizioni economiche dei ceti più deboli, i quali, grazie ai salari erogati dalle industrie, poterono accedere ai beni di prima necessità e all’istruzione di base, motore portante del riscatto e del miglioramento di ogni società.

Orbene, l’elaborazione di idee e di modelli di gestione della società, di visioni etiche e morali che ne indicavano anche lo sviluppo in senso sociale e umano, soprattutto della dignità delle persone, si è avuto con la promozione e la libera circolazione delle idee, favorendo la coltivazione del pensiero, quale forma necessaria e superiore per lo sviluppo degli uomini. Proprio lo sviluppo del pensiero e della sua libera circolazione ha favorito la nascita di tante diverse “Culture Politiche” che hanno rappresentato il sale delle società moderne, il cuore pulsante di ogni moderna democrazia, abituandoci ad accettare il pluralismo delle idee come un bene primario. Valore ben esplicitato dalla famosa frase, erroneamente attribuita a Voltaire (pseudonimo di Jean François Marie Arouet): “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, in realtà usata per la prima volta da Evelyn Beatrice Hall, saggista conosciuta con lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre.

Le grandi “Culture Politiche,” dall’illuminismo in poi, sono state quelle liberale, dell’assolutismo, dell’imperialismo, del nazionalismo, marxista, socialista, liberaldemocratica, fascista, nazista. Sono state ideologie, filoni di pensiero, che oltre a produrre una grande messe di idee di progresso, hanno generato in alcuni casi, come in quelli dei regimi dittatoriali, degli autentici drammi sociali.

Chissà! Forse vale la pena ripartire proprio dalle quelle “Culture Politiche” che hanno saputo dare all’umanità un percorso di pace e di progresso, mettendo sempre l’uomo al centro della loro elaborazione e della proposta per la società. Dobbiamo essere coscienti tutti che in assenza di idee, di sviluppo del pensiero, la società si ritorce su se stessa e abbandona ogni idea di futuro, lasciandosi dominare esclusivamente dalle paure e dall’avversità al confronto con la realtà degli altri popoli in un mondo sempre più interconnesso.

 

TANTO RUMORE… SOLO CONFUSIONE

(In corso di pubblicazione sul Mensile Nuova Informazione)

Il Governo 5 Stelle-Lega ha preso il via da alcuni mesi, dopo tante indecisioni e proclami sul cosiddetto “Contratto di governo”.

Appena annunciata, questa inedita e bizzarra formula, ha suscitato immediatamente riserve, sia rispetto alla prassi governativa che a quella istituzionale.

Alla fine tutti i commentatori l’hanno presa come una “boutade” dovuta alla furia del cambiamento “rivoluzionario” dei 5 Stelle.

Al di la delle formule lessicali, i punti del “Contratto” sono apparsi da subito incompatibili tra di loro: da un lato maggiori spese a carico del bilancio pubblico (5 Stelle), dall’altro meno tasse, quindi meno entrate (Lega).

Oltre a questi aspetti, che sono in massima parte propagandistici, si è assistito ad uno spettacolo davvero esilarante. Un Presidente del Consiglio di facciata, due Vice Presidenti effettivi, di cui uno (Salvini) il vero dominus del Governo, che non perde occasione di pontificare non solo sulle materie di sua competenza ma anche su quelle degli altri ministri, ivi compreso il Presidente del Consiglio nominale (Conte). Ma la cosa davvero incredibile è quella di un Consiglio dei Ministri dove Di Maio e Salvini di fatto dovrebbero dare indicazioni a ministri come Tria e Savona. Ve la immaginate la scena durante le riunioni? Due giovani politici privi di esperienze di governo, senza alcun curriculum extra-politico che possa far pensare ad una qualsiasi loro competenza in materie così complesse come l’economia, i rapporti con l’Europa e soprattutto le relazioni internazionali, che danno ordini a professori di valore e di lunga esperienza come Savona e Tria. Insomma, un ballettò della vanità scaricato sulle sorti del paese.

Tuttavia, i due giovani, non perdono occasione per parlare a sproposito, per lanciare anatemi contro l’Europa, contro il mercato, contro le banche, fatto salvo il fatto di voler rafforzare le loro frequentazioni con Putin e Orban, per non parlare poi dei tentativi fatti con i cinesi per fargli acquistare il nostro debito in caso di difficoltà ad emettere nuovi titoli del debito pubblico, non considerando i rischi che comporterebbe un’ipotesi di questo genere: di finire nelle fauci del leone asiatico.

Non c’è dubbio che i proclami lanciati contro l’Europa, contro gli immigrati, l’abbassamento delle tasse con la FlatTax, l’abolizione della legge Fornero, la quota 100 per le future pensioni, il reddito di cittadinanza, la cacciata del Gruppo Benetton dalla concessione delle autostrade e così via, hanno creato tanto rumore. Ma cosa e rimasto dopo il rumore? Solo una grande confusione inconcludente.

D’altra parte sul versante delle opposizioni il caos è ancora più grande.

Forza Italia e PD sono avvolti da nebbia densissima ed hanno perso totalmente la bussola. Arrancano senza sapere dove andare. FI tratta qualcosa sulla Rai per tutelare gli interessi di Berlusconi. Il PD sta facendo giorno dopo giorno arachiri….

Ad oggi questo governo ha dato una sola prova certa: di fronte alle scelte economiche vere si è bloccato. Accampa il pretesto che gli uffici dei ministeri non collaborano, anzi che lo boicottano. Non è in grado di fare la benché minima programmazione, non ha una visione del paese. Lancia solo slogan per blandire gli elettori. Se continuerà di questo passo avremo solo guai, non solo con l’Europa, ma questo mi sembra l’aspetto meno grave, soprattutto nelle relazioni con il resto del mondo. Il paese sta diventando inaffidabile agli occhi degli investitori e delle imprese.

Non c’è un’iniziativa utile al rilancio dell’economia che sia ripartita nel paese. 5 Stelle e Lega avevano promesso di ridare slancio alle piccole imprese, ai professionisti, a tutti i piccoli operatori ma non hanno idea di come farlo concretamente. Del resto la stessa cosa, ad esempio, è avvenuta su Roma. Dopo 2 anni la giunta Raggi non è riuscita a fare assolutamente nulla e si badi bene non per mancanza di risorse ma principalmente per assoluta incapacità inadeguatezza. L’una cosa che emerge è l’assenza totale nella gestione delle emergenze. Basta guardare al problema dei rifiuti e del traffico… il nulla più totale.

Ma per ritornare alle tematiche del governo c’è da chiedersi quali misure hanno preso, ad esempio, per la riorganizzazione di un settore tanto delicato come quello delle banche e del risparmio? Quali misure hanno assunto contro l’evasione e l’elusione fiscale?

Cosa intendono fare per il settore del turismo e dei beni culturali? Che misure concrete prenderanno per la ricerca scientifica?

Al di la della promessa del reddito di cittadinanza, cosa faranno concretamente per il sud del paese?

Oltre a respingere i poveri disgraziati che arrivano per mare, come pensano di regolare i rapporti con gli altri paesi che affacciano sul Mediterraneo?

Cosa hanno da dire sui principi posti dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Universali dell’Uomo in tema di accoglienza e di asilo politico?

Ma fare tutte queste domande a due “forze politiche antisistema” è sicuramente inutile.

Perché è inutile? E’ inutile perché il loro obiettivo principale non è quello di governare questo paese con le regole che ci sono, inserito, così come è oggi, nel contesto che la comunità internazionale democratica si è data.

Sanno perfettamente che per attuare il loro progetto debbono far saltare ogni legame con l’Europa e con le Istituzioni internazionali. Dopo di che potranno dire: lo vedete la comunità internazionale ci ha costretti! Vogliono sottomettere la nostra autonomia statuale, vogliono piegarci a regole che non sono state poste dal popolo mediante i propri eletti. Solo dopo potranno procedere con l’attuazione del loro “piano eversivo” che hanno in mente.

Un tale scenario potrebbe anche apparire cervellotico, altamente improbabile, ma non credo che sia così per due motivi.

Il primo motivo è che la Lega non ha mai negato la sua voglia di uscire dall’Unione Europea. Solo ultimamente è stata portata a più miti consigli dai propri Ministri che hanno esperienza e un più alto senso dello stato. Inoltre ha proposto anche di non pagare più la quota di finanziamento della Nato a carico dell’Italia.

Il secondo motivo e che 5 Stelle, tramite il proprio “azionista di riferimento”, la Casaleggio e Associati in persona di Davide Casaleggio, in una recente intervista ha affermato che di fatto, con le nuove tecniche di partecipazione mediante la rete, il Parlamento è divenuto uno strumento inutile che potrebbe anche essere soppresso.

Mi sembra che lo scenario prefigurato sopra non sia così irrealistico. C’è solo da sperare che le forze democratiche si coalizzino e riportino l’attenzione dei cittadini sull’importanza vitale che hanno i valori e i temi di una corretta e consapevole appartenenza dell’Italia tra il novero dei paesi avanzati e civili.

I giovani italiani, per garantirsi di che vivere, hanno due scelte: emigrare o farsi eleggere in Parlamento.

Quale speranza di futuro hanno i giovani italiani, e non solo loro? Negli ultimi tempi, si parla, con frequenza superiore al solito, di disoccupazione, con particolare riguardo a quella giovanile e femminile. Le parole sono troppe e le chiacchiere stanno a zero, in quanto di fatti se ne vedono pochi. Nulla si fa neppure per i giovani cosiddetti Neet, cioè quei giovani che non studiano, che non lavorano e che sono talmente sfiduciati e avviliti che hanno rinunciato persino a cercare una qualsiasi occupazione e/o a proseguire un regolare corso di studi per conseguire un titolo spendibile nel mercato del lavoro. A questo punto non resta loro che attendere speranzosi il reddito di cittadinanza o intraprendere il calvario dell’emigrazione. Per male che vada possono sempre candidarsi al parlamento o a qualche consiglio regionale o comunale per assicurarsi indennità e gettoni di presenza utili anche a pensione. Qualcuno, or non è molto, aveva suggerito alle donne di sposare un buon partito.

(Adolfo Gente)