L’impegno per la “Res Publica”

Era il 2008, quando in America era già scoppiata la crisi dei mutui sub prime e gli effetti si erano abbattuti, subito dopo anche sui conti delle banche, dei fondi previdenziali, delle compagnie assicurative e dei fondi comuni d’investimento italiani. La follia di una finanza spregiudicata che aveva confezionato titoli tossici, stava devastando il sistema finanziario mondiale. La reazione a catena metteva ancora di più in risalto la globalizzazione, quella di un mercato che non vuole, e che non ha regole, tanto le classi politiche si sono votate, di fatto, al liberismo più sfrenato.

Globalizzazione, una parola prima tanto osannata oggi tanto temuta, è un fenomeno con il quale siamo entrati in confidenza solo dalla fine del secolo scorso. In realtà è una dimensione con la quale l’occidente ha avuto a che fare già dall’espansione dell’Impero Romano sotto Traiano (II secolo d.C.).

E poi, via via, con i viaggi di Marco Polo in Cina, verso la fine del XIII secolo, con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492; con le esplorazioni di Vasco de Gama che tentò la navigazione diretta fino all’India e Ferdinando Magellano, il primo a tentare la circumnavigazione del globo.   

La conquista di altri stati e il loro asservimento a Roma prima e agli altri Paesi colonialisti dopo, favorì lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e i conseguenti scambi commerciali che svilupparono le interconnessioni economiche e culturali tra paesi lontani, fino ad allora vissuti in una sorta di autarchia.

E’ evidente che la globalizzazione è il dominio dei poteri potenti su quelli più fragili. Oggi i potenti della finanza hanno sottomesso gli stati più fragili e meno sviluppati alle regole ferree del dominio dei capitali su qualsiasi altra necessità sociale ed economica. Questa è la tragica sintesi della situazione in cui ci troviamo. Ricordo che quando il fenomeno iniziò a prendere piede, alcuni di noi obiettarono che questa ideologia, questo mantra della globalizzazione, avrebbe ridotto gli stati e le popolazioni a meri servitori di pochi grandi manovratori. Va da sé che fummo subito tacciati di essere dei vetero statalisti. In realtà facevamo solo delle elementari considerazioni di buon senso, ma soprattutto mettevamo in evidenza che l’arretratezza di alcuni paesi, nella competizione globale, poteva essere mitigata solo da interventi mirati dello stato in ambiti ben precisi, strategici, nei quali i privati non avevano interesse ad investire perché soggetti ad un rientro della redditività solo sui tempi lunghi. In definitiva niente di più e niente di meno di quello che proporrebbero degli economisti di stampo keynesiano e liberale. E noi ci univamo a questi. 

La situazione dell’Italia ora è giunta ad una situazione di stallo. Dopo oltre 25 anni dalla fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, abbiamo un paese ingessato, incapace di voltare pagina e programmare il proprio futuro alla luce dei cambiamenti che sono intervenuti nel frattempo. Il problema alla base di questo disastro è la mancanza di una classe dirigente all’altezza dei compiti che la contemporaneità ci pone. Questo è certamente uno dei primi temi che dovrebbe essere messo in un’agenda della politica e del nostro Governo in particolare. Risolvere questa problematica, seppure con i tempi non brevi che richiede, significa ripartire con il piede giusto. Significa rilanciare la passione civile per la “Res Publica”.

Oggi, per comprenderne la portata e il significato di questa locuzione basterebbe richiamare il pensiero di un grande pensatore e giurista vissuto nel I° secolo a.C., Marco Tullio Cicerone, il quale nel suo trattato politico “De re publica” ci dice: «”La res publica” è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione del diritto e per la tutela del proprio interesse». Ma ancor di più, lo dobbiamo intendere come un monito che ci richiama alla inevitabile compenetrazione dei destini dei cittadini, legati indissolubilmente al destino del proprio stato e della propria società.

Per questa ragione dovremmo farci una domanda e chiederci se il potere è qualcosa che debbono conquistarsi solo le giovani generazioni o sia materia più adatta ad essere dominata da persone esperte e sagge, diciamo in una parola dagli anziani? Non v’è alcun dubbio che i giovani hanno nelle vene il fuoco vivo della vita e del futuro, mentre gli anziani hanno un punto di osservazione della stessa posto su una traiettoria declinante. Oggi i giovani non provano più attrazione per la politica e, da anni, sono costretti a vedere di fronte a loro stessi una prospettiva che è peggiore di quella che hanno avuto i loro genitori. Le loro principali preoccupazioni sono quelle di cercare più certezze per il lavoro, per la famiglia, per l’ambiente, per la salute. Ciò giustifica, in una qualche misura, il loro allontanamento dalla cura e dall’interesse per la gestione della “Res publica” vista purtroppo come qualcosa di distante e ostile alle loro problematiche.

Ma questo non deve esimerci, istituzioni e società civile, dall’obbligo etico e morale di rilanciare con forza e con passione una grande fase di rinnovamento del paese, quello che potremmo definire un nuovo rinascimento. Tale progetto potrebbe essere ancora più forte se si riuscisse a coniugare le aspettative e la forza dei giovani con l’esperienza e la saggezza degli anziani in un nuovo patto intergenerazionale, ove ogni componente della società sappia fattivamente e responsabilmente dialogare con le altre. Come diceva Bertrand Russel: “L’educazione dovrebbe inculcare l’idea che l’umanità è una sola famiglia con interessi comuni

Il programma di lavoro e l’impegno che sta profondendo l’Associazione “Merita,” grazie ai suoi soci promotori, ma soprattutto animatori, mi sembra una sintesi perfetta che va esattamente nella direzione indicata da Russel.

Giuseppe Filippi – Roma 16 maggio 2020

I CITTADINI E L’EUROPA

Succede spesso in questi ultimi anni che si parli dell’Europa, del suo ruolo e del significato che ha per i cittadini comuni. Tuttavia, non si è riusciti a trovare un campo idoneo, atto a sviluppare un confronto fattivo, sia nella pubblica opinione che tra forze politiche.

Quello che riporto di seguito è il frammento di una discussione tra due cittadini che, per cultura e ruolo professionale, sono posti nella parte alta di una ipotetica scala della competenza e dunque della consapevolezza dei problemi nei quali sono immerse oggi l’Italia e l’Europa.

I due riflettevano sul tema della vicinanza delle istituzioni ai cittadini ed in particolare di quelle europee. Il tema è di grande importanza, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, che vede gli Stati dell’Unione Europea attanagliati sempre più da politiche fiscali e legislative asfissianti. Il problema però più devastante, almeno per paesi che si trovano in una condizione simile a quella dell’Italia, è quello dei continui vincoli a cui sono sottoposti i bilanci degli Stati, soprattutto in relazione all’ammontare del debito complessivo accumulato dai singoli paesi.

In particolare, in Italia, in questi ultimi anni, l’Europa viene vista come una congrega di tecnocrati aridi che guardano esclusivamente ai conti dei bilanci pubblici con una mentalità da semplici contabili. Le uniche ricette che sanno fornire, come risposte alla situazione economico finanziaria, sono sempre le stesse: tagliare il debito pubblico e risanare i conti dello stato. Infatti, negli ultimi tempi, ci hanno fatto conoscere anche la spending revue, andata di moda per diverso tempo qui in Italia.

Come si sa, l’Italia, nella gestione del debito pubblico, ha titolo di campione degli spendaccioni più dissennati. A ruota seguono altri paesi del sud dell’Unione Europea. I paesi del nord invece brillano per virtù e austerità nella spesa pubblica ed hanno un rapporto deficit/Pil molto migliore del nostro. 

Questi temi del rapporto deficit/Pil e debito/Pil hanno dominato la scena dei compiti principali assegnati all’Unione Europea. E’ evidente che i cittadini, di fronte a questa martellante campagna che ci proviene giornalmente dalle Istituzioni europee, non possono che avere una visione dell’Europa come matrigna e causa principale di tanti mali che affliggono le nostre economie e travagliano i ceti più deboli della società.  

Ora, non v’è dubbio che l’Europa soffra, essa stessa, di un deficit di tipo politico-culturale. In tutti questi decenni, durante i quali si sarebbe dovuta costruire un’Europa politica, si sono creati invece esclusivamente tanti salotti snob, soprattutto a Bruxelles, presso la Commissione Europea, tecnocratici, avulsi dalla realtà dei popoli e delle società dei singoli paesi partner dell’Unione. Come qualche cosiddetto sovranista alla Salvini ama dire, l’Europa ormai legifera su tutto, tranne che sui problemi concreti delle persone, per dedicarsi soprattutto a regolamentare inezie come il colore delle bustine con le quali si confeziona l’insalata.

Ma torniamo per un momento ad analizzare come quei due cittadini, di cui dicevamo all’inizio, vedono l’Europa. Una delle prime osservazioni che ponevano è quella che fino a poco tempo fa, i principali documenti dell’Unione Europea erano pubblicati al massimo in due lingue: francese e inglese. Poi di recente si è aggiunta quella tedesca. Ora la domanda sorge spontanea: se un’istituzione vuole dialogare con i propri cittadini come fa a non parlare la loro stesa lingua? E ancora, i tanti parlamentari, eletti nei singoli paesi, possibile che in tutti questi anni, non abbiano mai sentito la necessità di far tradurre gli atti delle istituzioni europee nelle lingue dei loro Stati? Come se ciò non bastasse, fino a qualche anno fa nei canali satellitari si poteva vedere una tv, almeno in Italia, che parlava esclusivamente delle istituzioni europee e della loro attività. Perché oggi questo canale è sparito, o almeno non lo vediamo sul digitale terrestre che è quello che guardano il 99 percento dei cittadini? Perché è sparito, almeno qui in Italia, anche un altro canale televisivo che parlava dei rapporti tra l’Europa e i paesi che affacciano sul Mediterraneo? E per concludere, che fine ha fatto l’avvio di Euromed, l’istituzione creata dall’Europa l’anno scorso, che dovrebbe avere tra l’altro la propria sede qui in Italia? Era stata istituita proprio per guardare con maggiore attenzione i rapporti dell’Unione Europea con i paesi del Mediterraneo e favorirli. Questa iniziativa andrebbe rilanciata e rafforzata, soprattutto alla luce dei continui e inarrestabili sbarchi sulle nostre coste di tanti poveri esseri umani disperati, che negli ultimi tempi sono rallentati solo per la paura del Corona virus.

Ora, per evitare di essere tacciati di fare solo lamentele, è giunto il momento di alcune piccole proposte.

La prima è quella di introdurre l’obbligo di corsi di lingua inglese nelle scuole, negli uffici pubblici e nelle aziende, con l’esclusione di quelle più piccole per ovvie ragioni organizzative, ed organizzarli sia in aule fisiche che on-line;  ed infine, di redigere i principali documenti sia in italiano che in inglese.

La seconda è quella di reintrodurre sul digitale terrestre uno o più canali TV dedicati all’Europa e alle sue istituzioni.

La terza è la pubblicazione tutti i documenti, dell’Unione Europea nelle lingue dei singoli Stati, con a fianco il testo in lingua inglese, per consentire a tutti i cittadini il libero accesso alle informazioni. Un provvedimento di questo genere tra l’altro crediamo che darebbe un grande contributo anche ad evitare che i paesi, e l’Italia in particolare, non presentino progetti per accedere ai fondi europei, soprattutto da parte di soggetti più piccoli come piccole imprese, cittadini, piccoli comuni e così via.

Ma i due amici, chiacchieroni e amanti di farsi domande hanno proseguito con altre riflessioni.

  1. La prima è stata quella di ripercorrere le ragioni storiche e politiche che portarono alla nascita delle prime Comunità Europee con la firma dei trattati di Roma del 1957. Allora sembrarono avviare e realizzare il tanto agognato sogno europeista di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. Ma oggi quanta parte hanno realizzato di quell’idea di Europa?
  2. La domanda successiva è stata quella del perché popoli e Stati così diversi tra di loro, per storia e cultura, abbiano creato un’Europa in forma di “Unione”.
  3. E ancora, quanto i popoli hanno assimilato l’idea di essere parte integrante del loro stato di appartenenza e di essere al contempo anche cittadini dell’Unione Europea, di questo organismo politico più ampio e ancora troppo lontano nella loro percezione?

Con la firma dei Trattati istitutivi dell’Unione Europea, gli Stati aderenti hanno ceduto una parte della loro sovranità che alcuni dicono essere ancora insufficiente mentre altri, come i cosiddetti sovranisti, al contrario, vorrebbero ridurre il peso delle istituzioni europee. E qui si apre un’ulteriore riflessione circa il ruolo dell’Italia, inserita nell’Unione Europea, e nel confronto con il resto del mondo, così come si è venuto evolvendo negli ultimi decenni, soprattutto sotto i profili politico-economico e strategico-militare. Ora, che ruolo può avere un singolo stato che abbia le caratteristiche dell’Italia alla luce dei fenomeni che hanno caratterizzato il contesto internazionale, soprattutto mediante la globalizzazione economica e finanziaria? Come si porrebbe, l’Italia, di fronte alla modificazione dei rapporti di forza fra le due super potenze (USA e URSS), che avevano assunto la leadership globale subito dopo la Seconda Guerra mondiale? Come si potrebbe inserire nel giogo tra le vecchie e le nuove super potenze mondiali come Cina, India e Brasile?

Alla prima domanda la risposta, probabilmente, era già insita nel Manifesto di Ventotene, il cui titolo era “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”.

Rispetto alla seconda domanda, relativa al tema “dell’Unione di Stati,” prima di dare una risposta, occorrerebbe preliminarmente farne delle altre. E cioè: Cosa hanno unito gli Stati, cosa volevano effettivamente unire, cosa si dovrebbe unire oggi, alla luce degli sviluppi che ci sono Stati a livello globale (Si veda da ultimo il dramma del Corona virus)? Ovviamente il confronto è aperto.  

Per quanto attiene alla terza domanda, credo che si possa concordare sul fatto che oggi nei cittadini prevalgano due desideri diametralmente opposti. Il primo, è quello di chi confida in un’Europa solidale e in un’area di grande pace. Il secondo invece, è quello di chi non vede l’ora di fuggirne via, perché la considera matrigna. E’ evidente che sia l’una che l’altra posizione sono figlie di una reazione essenzialmente emotiva. Invece, per dare forza e senso ad un’Unione Europea rinnovata, credo che occorrano una grande conoscenza delle regole su cui si fonda e una diffusa consapevolezza dei meccanismi che governano i rapporti tra Stati e Unione, in particolare di quelli che, opportunamente modificati, la potrebbero portare a guardare verso orizzonti più aderenti alle necessità di tutti i paesi membri e dei loro cittadini, che sono il cuore vero dell’Europa. A noi tutti sta il compito di non farli aspettare troppo.

Giuseppe Filippi

Roma 10 maggio 2020