Adolfo Gente

(RI)SCOPRIRE LE RADICI, MATURARE L’IDENTITA’, COSTRUIRE IL FUTURO

(Pubblicato sul n. 1 di gennaio 2016 dalla rivista Nuova Informazione)

 

 

Ama la tua Terra

non la tradire

(dalla canzone In viaggio, cantata da Fiorella Mannoia)

 

 

La relativamente recente esplosione dell’informatica e l’incontenibile diffondersi delle molteplici, impensabili modalità di utilizzazione con macchine e strumenti sempre più sofisticati e precisi, in tutti i settori economici e in ogni attività umana, hanno annullato il tempo e lo spazio, provocato una spaventosa disoccupazione (soprattutto giovanile e femminile nei paesi occidentali), fatto nascere nuove professioni che presuppongono nuove competenze e messo in non cale vitali aspetti culturali, sociali e valoriali delle singole persone e delle comunità di appartenenza. La globalizzazione totale, che ne è il portato più dirompente, trasformato mercati, economie e finanze, fagocitando, novello famelico Golia, tutto il piccolo, che, per definizione, è bello. Siffatta operazione ha vanificato la dimensione umana e la genuinità nei rapporti interpersonali e interistituzionali. Ha estirpato, altresì, ogni radice che collegava al passato, alimentava il presente e concorreva a costruire un futuro migliore.

Sono nate, quindi, una nuova organizzazione sociopolitica, nuove forme di mercato, diverse scuole di pensiero in materia di economia e di finanza. E’ nata e si è sviluppata la cosiddetta new economy[1], che rappresenta, secondo il sociopedagogista Mario Pollo (Manuale di pedagogia sociale, Franco Angeli, Bologna 2015), una trasformazione non solo economica ma antropologica.

In un tale quadro, l’attivazione di nuove opportunità di lavoro è divenuta spasmodica e ha creato uno strano miscuglio fra neonate necessità e antiche, rivisitate e distorte iniziative per carenza di informazioni scientificamente rigorose, se non per malafede (si pensi al turismo religioso, al turismo culinario che si intreccia con la filiera agroalimentare e ai prodotti tipici, di origine protetta e/o controllata). Ne è divampata, scrive ancora Mario Pollo, una deleteria “mercificazione del divertimento e delle risorse culturali (arti, feste, sagre, movimenti sociali, pratiche spirituali, impegno civile) che divengono un intrattenimento individuale a pagamento”, che non solo non soddisfa ma lascia l’amaro in bocca.

Da qui il messaggio contenuto nell’Albero della Vita, simbolo dell’Esposizione Universale di Milano 2015, che, se vuole produrre frutti duraturi, deve basarsi e sorreggersi su radici ben salde affondate in un humus fertile.

La pianta senza radici, infatti, non cresce né si sviluppa o cresce male, rachitica e senza possibilità di produrre frutti o di avere una vera vita.

L’albero, anche il più rigoglioso, a cui vengono tagliate le radici, appassisce, si secca e muore soffocato e sopraffatto da quelli che, invece, le hanno e le mantengono.

Metaforicamente un proverbio canadese vuole che un albero deve avere radici per vivere bene e ali per crescere e svilupparsi. Una analoga versione dice che i genitori debbono donare ai propri figli radici per crescere sicuri e ali per volare alti, per diventare autonomi. Che è anche il compito della scuola.

La persona, che non conosce – e, quindi, di fatto non ha! – le proprie radici culturali, in quanto nessuno gliene ha mai parlato né gliele ha fatte comprendere e apprezzare, è destinata, nell’attuale mondo totalmente globalizzato, a smarrirsi nella giungla disordinata di contrastanti comunicazioni e informazioni e a essere potenziale vittima di un negativo e purtroppo dilagante relativismo.

Scoprire, riscoprire, conoscere e valorizzare le proprie radici culturali e valoriali è un tutt’uno con la ricostruzione, lo studio, la cura e la trasmissione della memoria storica, una delle cui fonti più importanti e più facilmente deteriorabili, in quanto uniche e temporalmente effimere e che, proprio per questo debbono essere sollecitamente raccolte e gelosamente custodite, è quella orale che, affidata come è al ricordo e alla testimonianza di singole persone, dura lo spazio dell’esistenza di una vita umana, sia pure localmente ben contestualizzata. In proposito, ci ha lasciato versi particolarmente significativi, ancorché giovanili, il poeta Elio Filippo Accrocca, originario di Cori (Latina), dove ora riposa avendo concluso la sua esperienza terrena giusto venti anni fa, l’11 marzo 1996.

Scrive, dunque, Accrocca

è costruito di memoria, l’uomo,

come una casa, un vicolo. Il mio nome

maturava col caldo degli agnelli.

Lo sanno i falchi della mia regione

E l’acqua, rive amate, dei fossati.

Con me cresceva l’ombra d’un olivo.

Il riferimento al nonno, questa volta non esplicito, sottolinea il perpetuarsi di una memoria storica, di cui è fatto l’uomo e che si tramanda da una generazione all’altra, preziosa eredità come la casa, il vicolo, il paese, oggi come allora quando di globalizzazione non si parlava neppure.

La memoria storica, se non costantemente costruita e ricostruita, inesorabilmente si indebolisce, si affievolisce, viene dimenticata e cade nell’oblio, con conseguenze negative inimmaginabili per la definizione di una identità culturale certa, e per positive opportunità di confronto e di dialogo, senza complessi né pregiudizi, fra persone, popoli, nazioni e paesi a livello planetario.

La memoria storica è l’humus fertile in cui affondano le radici culturali e sociali e si sviluppa l’identità personale e di gruppo, radici che vanno costantemente ricercate, scoperte e riscoperte, se si vuole – come si deve – costruire un futuro credibile e comunque possibile.

Ricercare, scoprire e riscoprire, per conoscere, riconoscere, studiare, amare, rispettare, conservare e tramandare le radici culturali e le scelte valoriali della propria comunità sociale e civica, del proprio paese, della propria nazione, del proprio Stato sono compito e responsabilità precipui della famiglia e della scuola d’intesa con i vari gruppi in cui si articola la società civile. Lo scopo, primo e ultimo, di un impegno siffatto è quello di costruire e di definire una identità certa, grazie alla quale dialogare e confrontarsi senza complessi di inferiorità, ma anche senza anacronistici atteggiamenti di superiorità, che possono sfociare in integralismi e in fondamentalismi, se non in veri e propri fanatismi e in pericolosi razzismi, con conseguenze negative e dolorose esclusioni.

È l’eterno problema del rispetto della persona e dell’organizzazione democratica dello Stato in cui i cittadini vivono e operano, problema che va affrontato e avviato a positiva soluzione partendo dalla cosiddetta microstoria, formando una reale coscienza civica e stimolando una cittadinanza attiva e una partecipazione consapevole là dove si studiano e si tenta di soddisfare le esigenze e le aspettative del proprio ambiente e del proprio tempo pensando al futuro, in una prospettiva di medio e lungo periodo.

Ma chi deve custodire, studiare e tramandare la memoria storica, che è fatta di documenti e reperti materiali e di tradizioni in genere immateriali trasmesse soprattutto oralmente? Chi integra e armonizza la macrostoria, i grossi avvenimenti internazionali, nazionali ed epocali, con la microstoria territoriale o, più precisamente, con la cosiddetta storia “locale”, dispregiativamente indicata anche come storia “minore”? Eppure, a voler utilizzare una espressione dello scrittore Giovannino Guareschi, il geniale “papà” di due immortali personaggi, paesani e universali, quali Peppone e Don Camillo, con la storia locale ci si può immergere nella quotidianità di un “mondo piccolo” che sa aprirsi egualmente al vicino e al lontano molto meglio di quanto avviene ora in un “villaggio globale” senza anima e proiettato altrove, lontano dalla propria comunità di appartenenza, che, anzi, viene irresponsabilmente trascurata, quasi ignorata.

A tal proposito si manifestano in tutta la loro gravità le vistose carenze e le colpevoli omissioni delle due principali agenzie formative, che si scaricano reciprocamente la responsabilità di una crisi tanto profonda, quanto facilmente sanabile cioè la scuola e la famiglia.

La scuola trascura la storia e la cultura locali, che la famiglia ignora in quanto nessuno gliele insegna. È un cane che si morde la coda, sembra senza alcuna prospettiva di uscirne fuori, almeno nell’immediato.

Eppure la soluzione potrebbe esserci, se solo si rispolverasse e si applicasse l’intuizione che il Legislatore ha avuto e codificato ormai oltre quaranta anni fa.

Nel 1974, infatti, con la legislazione delegata sulla scuola, fra i numerosi altri organi collegiali, vennero istituiti (D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416) i già ormai soppressi Consigli Scolastici Distrettuali, che, di fatto, non erano mai completamente decollati, oltre che per la pletoricità dei componenti, anche perché avevano molti poteri di proposta e pochi decisionali. Fra i primi (cfr l’art. 12 del citato D.P.R. n. 416/1974), era ricompresa la possibilità di formulare proposte al Ministero della Pubblica Istruzione per l’inserimento nei programmi (allora non si parlava ancora di programmazione) di studi e di ricerche utili alla migliore conoscenza delle realtà locali.

Attribuendo ai Distretti Scolastici una funzione, rivelatasi tanto delicata e importante, il Legislatore non ha assunto un atteggiamento autoritativo né una decisione verticistica, ma si è limitato a prendere atto e a normare – come scrivevo già nel 1987 nella Introduzione al mio libro su Norma (vol. n. 7 della collana “quaderni di storia e tradizioni locali” edita dal Consorzio per i Servizi Culturali di Latina) – almeno sui tre seguenti aspetti di notevole rilevanza politico-sociale e pedagogico-didattica.

In primo luogo, la definitiva presa di coscienza da parte della scuola di essere un centro di ricerca, occasione per l’avvio di un processo di ricerca, di un modo di porsi di fronte ai problemi del proprio tempo e del proprio ambiente valido per la scuola e, oltre la scuola, per tutta la vita e per ogni cultura. In secondo luogo, l’avviato processo di riscoperta e di rivalutazione del folclore, del dialetto, delle tradizioni, affinché l’uomo, per tanto tempo sradicato, in tutto o in parte, dal suo ambiente riacquisti la coscienza e il sapore di una realtà della quale, sembrava doversi quasi vergognare, mentre essa è forse l’unico motivo di orgoglio rimastogli, il vero e insostituibile punto di partenza per costruire una società a vera dimensione umana. Infine la rivalutazione, anche a livello istituzionale, degli enti locali nelle loro diverse – e oggi in via di ridefinizione – articolazioni territoriali e funzionali, onde tentare di realizzare una democrazia realmente partecipata e, quindi responsabilizzante, di favorire la maturazione di un positivo senso di appartenenza individuale e di gruppo, per poter amare, rispettare, valorizzare e non tradire – avendola conosciuta – la propria terra e quanto da essa gelosamente custodito (“se non sai dove sei, non sai chi sei”, afferma lo scrittore Greg Bear, pseudonimo di Gregory Dale Bear).

Peccato che una tanto preziosa opportunità sia stata da subito – e continui a essere – disattesa, per un complesso di concomitanti circostanze proprio da quando più impellente si è manifestata la necessità di scoprire, di conoscere, di rispettare e, per quanto possibile, di valorizzare le radici identitarie e culturali di ogni persona e delle rispettive comunità di appartenenza.

Negli ultimi decenni del secolo scorso, infatti, si sono verificati alcuni fenomeni parimenti interessanti e degni di particolare attenzione:

–          è esplosa e dilagata con forza inarrestabile, all’apparenza – e, forse, anche nella sostanza – ineluttabile, una globalizzazione appiattente e omologante, che ha cancellato e mortificato qualsiasi diversità; è come se il pianeta fosse stato avvolto da una nube scura che ha reso grigi e tutti uguali persone, animali, cose;

–           da qui l’urgenza, per continuare a vivere, di riscoprire specificità e peculiarità e di recuperare le infinite identità culturali studiando i grossi eventi planetari e nazionali (macrostoria), ma anche le piccole e non per questo meno importanti vicende territoriali e locali (microstoria);

–          la scuola italiana ha mancato siffatto, vitale appuntamento e dura fatica a recuperare il tempo inesorabilmente perduto, nonostante sia stata e continui a essere favorita dalle modifiche normative, frutto e portato del progresso delle scienze psicologiche, pedagogiche, didattiche e, perché no?, sociologiche, che hanno consentito una progressiva evoluzione, con una autonomia sempre più ampia, dagli allora vigenti programmi, centralistici e verticistici, a una flessibile programmazione, individuale e collegiale, ancorata alle singole realtà locali, per approdare alle Indicazioni, che permettono un ventaglio di scelte particolarmente ampio e articolato.

Purtroppo nello stesso periodo, in applicazione delle norme costituzionali e grazie all’ammodernamento dei mezzi di trasporto pubblici e privati, che hanno annullato le distanze geografiche e consentito una mobilità selvaggia, quotidiana e/o settimanale, e una transumanza periodica verso sedi le più disparate e, comunque, sempre diverse e distanti del personale docente e scolastico nell’accezione più ampia, lo studio della storia locale e la conseguente maturazione di una precisa identità culturale si sono andati a far benedire nella generale indifferenza. È ora si piange sul latte versato e sprecato!

Per fortuna, le vistose carenze della famiglia (anche questa sempre più etnicamente allargata e con radici identitarie e valoriali significativamente differenziate) e della scuola (che stenta a prendere coscienza e seguita a trascurare platealmente la cultura del territorio in cui vive e opera, con conseguenze disastrose) vengono colmate dalla silenziosa e non adeguatamente apprezzata opera volontaria di tanti studiosi, spesso dilettanti e privi di certe necessarie competenze, ma ricchi di entusiasmo e di tanta buona volontà, che si ostinano a cercare, scoprire, riscoprire e socializzare, per tramandarle, le radici sociostoriche e culturali del proprio paese, delle comunità di appartenenza per nascita e/o per scelta. E tutto, quasi sempre, a proprie spese (pecunia sua, come direbbero i latini)!

Sono costoro che non rendono velleitarie grandi battaglie, come quella di Papa Giovanni Paolo II, che, a suo tempo, rivendicò inascoltato la necessità di richiamare, nella Costituzione dell’Unione Europea, le radici cristiane dei popoli e delle nazioni che ne fanno parte, radici che avrebbero contribuito a definire una identità per questa Europa, attualmente sbandata e smarrita proprio per la mancanza di valori alti, certamente unificanti.

Anche la corretta gestione del territorio, pressantemente e convintamente invocata nel fascicolo numero 11/novembre 2015 della rivista mensile “Nuova Informazione”, è il portato di una precisa identità culturale e valoriale, che, in questa prospettiva, acquista pregnanza territoriale e valenza anche economica e occupazionale.

Soltanto in un simile contesto, tanto avvilente e demotivante, la Regione Lazio ha potuto permettersi di varare una buona legge, che accoglieva, senza soddisfarle, le esigenze della parte più avveduta della società civile. Si tratta della L.R. 21 febbraio 2005, n. 12 – “Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio”, approvata e resa esecutiva, ma senza essere stata mai finanziata, per deprecabili ragioni demagogiche o per ragioni burocratico-statistiche, cioè per giustificare, numeri alla mano, le scandalose indennità elargite ai Consiglieri Regionali, i cosiddetti “onorevolini” per rispetto degli “Onorevoli” componenti il Parlamento Nazionale.

L’impianto di detta legge è, però, utile e, con qualche accorgimento, funzionale alla proposta che intendo formulare a conclusione del presente scritto, denunciate le oggettive e gravi responsabilità della scuola e della famiglia.

La scuola pubblica italiana sta attraversando una favorevole stagione storica caratterizzata da massicce immissioni in ruolo di lavoratori appartenenti a tutte le categorie nella stessa occupati, da consistenti aumenti dei fondi destinati a premiare il merito dei docenti e creare le condizioni per migliorare sensibilmente la qualità dell’offerta formativa e la partecipazione attiva e propositiva al servizio sociale scolastico, infine da una crescente autonomia gestionale e didattico-organizzativa. Ciò nonostante una significativa percentuale di docenti e di dirigenti scolastici versa in uno stato di preoccupante frustrazione, dal momento che, in forza degli inevitabili trasferimenti di non breve periodo e degli spostamenti quotidiani e/o settimanali, vivono male la loro condizione di presunti “deportati” e/o di “pendolari” costretti a massacranti viaggi, spesso anche di ore e soprattutto su treni molto simili alle vecchie “tradotte” militari.

In tale stato d’animo e in una reale condizione di perenne stanchezza fisica e non solo, il dovere professionale e la volontà di conoscere e studiare, per poi poterla insegnare e far amare, la cultura della sede di servizio si sono progressivamente affievoliti fino a scomparire, ammesso che siano mai esistiti. Il fiocco alla corona, infine, è stato messo dalle sempre più frequenti, vorticose e disordinate migrazioni,  che hanno superato e fatto impallidire i “matrimoni pedagogici”, cioè i matrimoni fra docenti entrambi con retribuzioni basse propri della prima metà del secolo scorso (e io ne sono uno dei figli in quanto i miei genitori erano maestri elementari), e svuotato di qualsiasi credibilità e contenuto un antico adagio che voleva “donne e buoi dei paesi tuoi”, cioè possibilmente della stessa località o di comuni vicini, onde condividere storie, tradizioni e dialetti, la cultura in una parola.

In tale situazione, nell’immediato irreversibile, per non smarrire le radici culturali, diviene indispensabile la creazione di istituzioni, di enti e/o di strutture come quelle pensate, ma non realizzate, dalla Regione Lazio al fine di raccogliere, conservare, tramandare e quindi valorizzare dialetti e culture locali con appositi centri di documentazione e attraverso la formazione di studiosi amanti e profondi conoscitori della materia, da affiancare ai docenti curricolari in servizio pro-tempore in una determinata località quali “esperti esterni”, così come indicato dalla legge n. 107/2015, la cosiddetta “Buona Scuola”.

Sono sicuro che la soluzione prospettata è per la scuola una indiscutibile sconfitta, che mi auguro del tutto provvisoria, anche se non della provvisorietà definitiva tutta italiana. Sono parimenti convinto, però, che soltanto così le preziose culture locali non cadranno nell’oblio e si sposeranno con i contenuti della macrostoria, mentre la scuola potrà seguire il percorso classico, sempre lo stesso ma sempre nuovo, che vuole i docenti impegnati a suscitare l’interesse degli alunni, sviluppandone tutte le attitudini, affinché maturino l’identità e conquistino l’autonomia, attingendo e alimentandosi alle proprie radici, seguendo, da ultimo, ma solo in ordine di proposizione, l’insegnamento dello scrittore Erri De Luca, il quale saggiamente sottolinea che “chi vede un fiume guarda il verso in cui scorre, dove scende secondo la corrente. Ma il futuro di un fiume è alla sorgente” (da, E disse, Feltrinelli, Milano 2011).

E come è per il fiume, così è per la persona!

 

 

Adolfo Gente

 



[1] L’espressione new economy è stata utilizzata essenzialmente per definire:  “L’insieme dei fenomeni economici, ma anche sociali e culturali, associati all’impetuoso sviluppo delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (ICT, Information and Communications Technology), che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del 20° secolo. L’espressione è impiegata nel linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa, ma anche in contesti più tecnici e specializzati.”

http://www.treccani.it/enciclopedia/new-economy/