NORMA E PONTINIA DUE COMUNI, UNA IDENTICA EPOPEA DUE SINDACI DA SOLLECITARE

(Articolo pubblicato sul numero di marzo 2017 della Rivista Nuova Informazione)

Per mera casualità, due paesi della provincia di Latina che più diversi non si può, ancorché relativamente vicini sia in linea d’aria che per strada carrabile, Norma e Pontinia, uniti per una occasionale e contingente opportunità burocratico-organizzativa necessaria al fine di poter fruire dei benefici regionali previsti per la realizzazione di un progetto di ricerca socio-storica sugli avvenimenti verificatisi nell’inverno-primavera 1944 in coincidenza e a seguito dello sbarco ad Anzio-Nettuno delle truppe angloamericane allora neo-alleate del nostro Paese, hanno scoperto di avere avuto, comunque, qualcosa – forse parecchio – in comune.

La scoperta di fatti reali e oggettivi è stata resa possibile dall’impulso impresso e dall’impegno profuso, fra un purtroppo diffuso disinteresse e ricorrenti scoraggiamenti, dalla Associazione Culturale “I Ciclopi” di Norma, a cui le Amministrazioni Comunali dei paesi interessati hanno affidato l’incarico della ricordata ricerca, che è stata realizzata con il coordinamento scientifico del Prof. Adolfo Gente, la consulenza storico-documentaria dello stesso Gente, per Norma, e del Dott. Claudio Galeazzi, per Pontinia, nonché con la collaborazione attiva e costruttiva di molti testimoni, dei docenti e degli alunni delle Scuole Elementari e Medie di Norma, Sermoneta e Pontinia.

Per queste ragioni, sarebbe opportuno proseguire la ricerca anche con una certa sollecitudine, se non si vuole perdere la possibilità di ascoltare i racconti dei pochi superstiti ancora in vita e che hanno una età ormai molto avanzata.

 

La sorpresa e lo stupore per la scoperta di avere una “cosa” in comune, stanno nella “cosa” in sé, e si accrescono se si pensa alle profonde e sostanziali differenze esistenti – allora come oggi – fra i due Comuni: Norma è un paesetto di collina dalla storia bimillenaria (qualche studioso la vuole fondata nel 492 a.C., altri vari secoli prima); durante tutta la sua esistenza ha rincorso, senza mai riuscire a raggiungerli, i 4.000 abitanti; la sua economia è sempre stata sostanzialmente silvo-pastorale e agricola, con la lavorazione delle olive, e del relativo olio, e delle castagne in via prioritaria; solo da alcuni anni ha una strada che la collega a Cori a mezza costa. Pontinia, invece, è una cittadina di pianura, la terza delle città nuove fondate nell’Agro Pontino redento dalla malaria e inaugurata nel 1935; al centro di una fitta rete stradale e, di fatto, sulla Strada Statale Appia, che ne attraversa il territorio; nel 1944 – cioè ad appena nove anni di vita – aveva una popolazione di circa 7.000 abitanti, che viveva di agricoltura e dei primi insediamenti industriali, con uno sguardo al vicino mare e ai numerosi e pescosi corsi d’acqua, naturali e artificiali, che circondano e lambiscono il centro storico e i vari nuclei abitati sparsi nella campagna.

Come se ciò non bastasse, anche dal punto di vista antropologico le due comunità sociali e civiche sono alquanto disuguali. Gli abitanti di Norna erano – e, ancora oggi, nella stragrande maggioranza sono – indigeni, autoctoni, appartenenti a famiglie di cultura e tradizioni ciociarolepine, insediatesi in quel territorio da tempo immemorabile, spesso da secoli. Allora, invece, la popolazione di Pontinia era costituita ancora soprattutto di immigrati (deportati?) dall’Italia settentrionale, con netta prevalenza (diversamente da altre zone strappate alla palude) di ferraresi e romagnoli in genere, i quali, tante volte, assolutamente digiuni di conoscenze e di competenze agricole necessarie per la coltivazione della terra e l’allevamento del bestiame loro assegnati, cercavano di integrarsi con i contadini e i coltivatori diretti del posto, onde averne amicizia, aiuto e insegnamento per rendere produttivo quanto avuto. Naturalmente i nuovi arrivati erano portatori di una diversa cultura e seguitavano ad usare il proprio dialetto, oltre che a osservare usi, costumi e tradizioni dei paesi di provenienza.

Nell’inverno-primavera del 1944 queste due comunità, così radicalmente diverse, hanno vissuto una unica, identica ed esaltante epopea.

Esclusi come possibili obiettivi militari, tattici e/o strategici, soprattutto se oggetto dei ricorrenti e micidiali bombardamenti aerei e navali, che tanti lutti e distruzioni provocarono ad alcuni comuni vicini, ridotti spesso a un cumulo di macerie (Cisterna, Velletri, ma, in parte, anche Sezze, Cori, Latina, Terracina ecc.); esclusione determinata dalla collocazione geografica dei due paesi o per intervento divino (gran parte dei normesi sono convinti che sia avvenuto per la intercessione della “loro” Madonna del Rifugio, dagli stessi calorosamente venerata da ormai oltre tre secoli), Norma e Pontinia diventarono meta agognata e ricercata, perché sicura, di migliaia di persone in fuga dai luoghi di abituale residenza, ormai insicuri se non addirittura pericolosi, di partigiani, di militari sbandati ecc. I cosiddetti sfollati trovarono nei loro territori accoglienza, ospitalità, assistenza e cura materiale e spirituale, cibo, in una parola condizioni di vita precarie ma accettabili nella situazione data (con le solite, deprecabili, eccezioni). Quasi inconsapevolmente si realizzò una vera propria epopea, umanamente esaltante, la cui parola d’ordine caratterizzante fu “solidarietà” senza aggettivi e nell’accezione più ampia e umana del termine. Il futuro, infatti, era incerto per tutti.

In poche settimane la popolazione presente in ciascuno dei due comuni lievitò fino a 25-30 mila persone, secondo stime ufficiali molto vicine alla realtà fattuale. A tutte, con grande generosità e indicibili sforzi, nei limiti del possibile, vennero assicurati, si fa per dire, vitto, alloggio e assistenza, in uno slancio umanitario, tanto più valido e apprezzabile, se rapportato alla bruttura, alla cattiveria, all’egoismo, ai ricatti, alle discriminazioni, alle mortificazioni, alle umiliazioni, morali e materiali, purtroppo propri di una inutile guerra guerreggiata e se in rapporto, altresì, del fatto che tutto quanto è avvenuto, si è realizzato senza distinzione di età, sesso, razza, lingua, religione, opinione politica e condizioni economiche e culturali, personali e sociali, come avrebbe successivamente sancito l’art. 3, al primo comma, della vigente Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948.

Un dato impressionante e indicativo non può essere sottaciuto, merita anzi di essere decisamente evidenziato: nei sette-otto mesi del periodo storico investigato, in ciascuno dei due comuni oggetto della ricerca, il numero dei morti per causa di guerra non ha superato quello delle dita di una mano.

Un tanto sparuto e statisticamente insignificante numero di persone decedute per eventi bellici, un così alto numero di sfollati accolti e accuditi, tanto più significativo se posto in relazione al numero degli abitanti abitualmente residenti (3-7 mila e 25-30 mila) sono gli assi portanti delle motivazioni per cui i gonfaloni dei Comuni di Norma e di Pontinia debbono essere insigniti della Medaglia d’Oro al Merito Civile.

La concessione di tale meritata onorificenza raddrizzerebbe almeno le due seguenti storture:

  1. sanerebbe una inconcepibile ingiustizia, grazie alla quale soltanto 14 dei 33 Comuni ricompresi nella circoscrizione territoriale della provincia di Latina hanno già avuto una onorificenza al Merito e/o al Valore Civile e la stessa Amministrazione Provinciale è stata insignita della Medaglia d’Oro al Merito Civile (si veda, in proposito, il volume Parole, Simboli e Segni della Memoria, edito dall’Amministrazione Provinciale di Latina nel 2014);
  2. invertirebbe una tendenza consolidata e capovolgerebbe una prassi, non assolutamente condivisibili e abbisognevoli di una radicale rivisitazione, in forza delle quali si vuole che riconoscimenti e onorificenze vengano conferiti in proporzione al numero dei morti e delle distruzioni, non già per gli sforzi compiuti perché morti e distruzioni non ci fossero o fossero sensibilmente contenuti come è appunto il caso di Norma e di Pontinia, due paesi vittime di un ambiguo disinteressamento e di una incomprensibile indifferenza da parte di vecchi e nuovi amministratori comunali, i quali, benché puntualmente e tempestivamente informati dei risultati delle ricerche condotte anche negli ultimi tempi e delle scoperte di avvenimenti quasi sconosciuti o del tutto inediti, si ostinano a non avviare la pratica, che pure non ha oneri economici per il conferimento a Norma e a Pontinia della meritata Medaglia d’Oro al Merito Civile.

Per le considerazioni sopra esposte, rivolgiamo ai Sindaci di Norma e Pontinia un appello affinché le due amministrazioni si rendano disponibili a riprendere fattivamente le attività a suo tempo avviate e sviluppate.

 

Giuseppe Filippi

Presidente Associazione Culturale “I Ciclopi” Norma

Lettera al Direttore de La Repubblica del 1 gennaio 2017

Egregio Direttore,

leggendo i titoli del servizio sul “Viaggio al termine della democrazia”, si coglie un immediato senso di rinuncia a credere che la democrazia possa sopravvivere.

Vi è una sorta di rassegnazione all’ineludibilità che la democrazia possa continuare ad essere l’orizzonte di riferimento per il mondo occidentale e sviluppato.

Anche se all’intermo del servizio vi sono sprazzi, molto sintetici per la verità, di posizioni che sostengono una posizione contraria, il filo conduttore resta quello della fine della democrazia liberale, così come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi.

 

Le analisi che vengono svolte dai vari sociologi e politologi intervistati sono note da tempo e in qualche modo fotografano l’esistente. Ma da sole non bastano. Non ci aiutano a capire cosa possiamo fare per difendere la nostra democrazia e soprattutto sapere cosa dobbiamo fare per farla continuare a vivere. Il semplice cahier de doleance non aiuta.

Occorre riprendere in mano il filo del ragionamento e dell’azione. Un compito questo che l’Espresso in tanti anni ha sempre avuto come suo tratto costitutivo e distintivo.

 

Ad esempio quando si accenna al mancato recupero del rapporto fiduciario tra i cittadini elettori e i politici/governanti, si manifesta in tutta la sua forza, quasi definitivamente, l’idea che può interessarsi alla politica o essere politico e magari leader di un progetto, o iniziativa politica, solo un cittadino che viene eletto nelle assemblee. E’ morta l’idea del cittadino che si interessa di politica, che si impegna, indipendentemente dal fatto che vada a gestire una posizione di potere. Questo è il segnale chiaro, che la modificazione della politica è stata catartica, devastante! Ha cancellato totalmente il senso civico dell’impegno sociale, del senso dello Stato e di appartenenza alla propria collettività.

Tutto ciò è drammatico, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: dal Governo nazionale a quello della Capitale, è un fallimento dietro l’altro, per motivi diversi , ma sempre di fallimenti si tratta. Tutti imbevuti di un nuovo populismo, così ben descritto nel servizio.

In ogni angolo del mondo i nuovi populisti, come sempre è avvenuto nella storia, fanno leva sulle paure della gente, annebbiando qualsiasi forma di ragionamento. In questo sono stati aiutati dalle cosiddette elite, dai tecnocrati, dai poteri della finanza e dei mercati, dalla logica della globalizzazione, che allontana sempre più l’individuo dal suo noto, dal suo mondo misurabile e dominabile”.

Vi è stato un progressivo svuotamento della memoria degli individui. La società è stata veicolata verso un nuovo mondo i cui esiti sono fuori dalla portata degli individui rendendoli impotenti e quindi attanagliati dalla insicurezza e dal rifiuto verso ciò che non riescono a capire, a governare.

 

La società, e il nostro Paese in particolare, hanno bisogno di ritrovare le modalità, gli strumenti e i luoghi ove poter tornare a fare politica, a partecipare in modo nuovo alla gestione del bene pubblico. I cittadini hanno il diritto di poter tornare a sognare un po’ della propria felicità, che può essere data loro dalla politica.

 

Roma, 1 gennaio 2017

Giuseppe Filippi

A proposito di tutela dell’ambiente Intervista a Giuseppe Filippi

Intervista a Giuseppe Filippi

pinoGiuseppe Filippi, nato a Norma (Lt) nel 1956, laureato in Giurisprudenza, dirigente d’azienda, revisore legale, è presidente dal 2012 dell’Associazione Culturale I Ciclopi  che ha sede a Norma e a Roma.

L’Associazione in questi anni, tra le altre iniziative, ha curato i seguenti progetti:

una mostra documentale dello sbarco americano ad Anzio del 22.01.1942 – Norma città solidale, realizzato con il contributo del Comune di Norma e della Provincia di Latina;  una mostra di pittura estemporanea Premio Giovanni Filippi, realizzata con il contributo del Comune di Norma e il Patrocino del Consiglio Regionale del Lazio; un piano di sostegno ai disabili e dotazione di un pulmino al Comune di Norma per il trasporto dei disabili, mediante il contributo della Fondazione G. B. Baroni di Roma; uno studio per una rimodellazione della Piazza del Comune, trasferendovi il Monumento a tutti i caduti (Curato da Enrico Filippi); un progetto sulla rievocazione della memoria per i fatti della  seconda guerra mondiale che hanno viste coinvolte le popolazioni pontine e Lepine in particolare. L’iniziativa ha coinvolto le scuole medie ed elementari di Norma, Sermoneta, Bassiano, Cisterna, Cori e Giulianello;

Giuseppe Filippi attualmente è Direttore dell’Area Patrimonio della società, della Regione Lazio, Astral spa, incaricata della manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade del Lazio. In passato ha ricoperto i seguenti incarichi: Segretario Provinciale dei giovani socialisti (FIGS) nel periodo 1973-1975; Vice Sindaco al Comune di Norma (LT) dal 1980 al 1985; Presidente provinciale della Confesercenti di Latina dal 1982 al 1985; Dirigente Nazionale della Fiesa – Confesercenti (Associazione di imprese commerciali del settore alimentare) dal 1980 al 1985; Dirigente Nazionale dell’Assoturismo–Confesercenti (Associazione di imprese nel settore turistico)  dal 1978 al 1980; Dirigente e fondatore di cooperative fra dettaglianti aderenti al Conad (Lega delle cooperative) dal 1977 al 1980; Segretario provinciale del PSI dal 1994 al 2002 e componente del Consiglio Nazionale.

 

Quando è nata l’Associazione culturale “I Ciclopi”, e con quale obiettivo?

L’Associazione è nata il 1° gennaio del 2012 con l’obiettivo di promuovere iniziative in ambito culturale da sviluppare nel territorio pontino, al fine di sviluppare i saperi, tenere viva la cultura storica attraverso i segni della memoria.

 

Per il futuro con quali progetti l’Associazione intende agire per migliorare il nostro territorio?

Come dicevo, il nostro obiettivo è quello di mantenere vivi gli insegnamenti e i moniti che la storia ci ha consegnato. Lo facciamo attraverso un rapporto continuo con le scuole e i Comuni. Per l’anno in corso intendiamo promuovere due iniziative, una per la celebrazione dei 300 anni della venerazione della Madonna del Rifugio a Norma e un’altra per la ricorrenza dei 350 anni della nascita del Beato Padre Baldinucci, gesuita e figura particolarmente venerata nei luoghi della nostra regione che lo hanno visto presente con le sue missioni. Nel contempo intendiamo andare avanti con nuove iniziative, che si aggiungono a quelle già realizzate, con alcune scuole del territorio, per ricordare gli eventi storici che hanno segnato in modo particolare il nostro territorio durante la seconda guerra mondiale.

 

Quali proposte operative sono state finora avanzate dall’Associazione per tutelare e dare impulso alle vocazioni naturali del nostro territorio?

In particolare, intendiamo rilanciare con maggior forza gli incontri con alcuni Comuni della fascia Lepina al fine di promuovere la creazione di un Consorzio Forestale. Si tratta di un’iniziativa che vuole sollecitare la sensibilità delle istituzioni locali e dei cittadini verso un maggior rispetto per la tutela e la valorizzazione ambientale.

E’ un progetto ambizioso che richiede prima di tutto la presa di coscienza delle potenzialità che ha il nostro territorio, ma anche, della sua fragilità di fronte alle asperità della natura e alla dissennatezza degli uomini.

 

Quali sono stati finora i punti di forza e di debolezza dell’Associazione? Per l’immediato futuro come rafforzare i primi ed eliminare i secondi?

I punti di forza sono stati la straordinaria partecipazione, di cittadini, studenti e insegnanti, che hanno incontrato i nostri progetti realizzati sino ad oggi. I punti di debolezza sono: A) l’allargamento della base associativa (abbiamo bisogno di un numero maggiore di soci che volontariamente offrano il loro impegno) e B) il reperimento delle necessarie risorse finanziarie che occorrono per portare avanti le iniziative.

 

Cosa dovrebbero fare i Comuni, le Comunità Montane, la Regione per incidere sullo sviluppo del territorio?

Il tema dello sviluppo è una materia assai complessa e in realtà non esistono ricette astratte o miracolistiche che possono essere elaborate a tavolino. Lo sviluppo è un argomento che coinvolge inevitabilmente tutte le componenti della società, sia economiche che politiche, sia sociali che culturali. E’ un processo corale, infatti, è molto raro che si generi uno sviluppo equilibrato e duraturo in assenza di un coordinamento delle componenti alle quali ho accennato.

Negli anni passati abbiamo assistito ad un ruolo dei Comuni e delle Comunità Montane eccessivamente invasivo della realtà economica. Si sono trasformati spesso in soggetti imprenditoriali operanti nei settori più diversi. I guai di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo visto società pubbliche, o miste pubbliche-private, che hanno accumulato enormi perdite, altre ancora che sono fallite. Sono state realizzate strutture, costate milioni e milioni di euro ai cittadini, che oggi sono abbandonate o che sono state di fatto regalate a privati pur di tenerle in vita. Sono state costituite altre società che, ancora oggi, continuano a borseggiare i cittadini,  basta guardare ai servizi come l’acqua, affidata ai privati, oppure lo smaltimento dei rifiuti affidato a soggetti troppo disinvolti.

Purtroppo, tutto questo è stato possibile grazie al fatto che spesso la Regione ha erogato soldi a pioggia e i Comuni, anche se non servivano, hanno realizzato opere inutili solo perché la Regione le finanziava. Hanno realizzato ponti piuttosto che Chiese, quando magari servivano fogne nuove o interventi a tutela delle frane o più banalmente serviva fare della manutenzione ordinaria a strade dissestate.

In sintesi, i Comuni e quello che resta delle Comunità Montane, si debbono trasformare in incubatori di idee, vettori di iniziative formative e informative in favore dei cittadini. Debbono favorire lo scambio di esperienze con altre realtà, sia nazionali che estere. Debbono creare una visione del futuro e dare speranza, merce oggi piuttosto rara nella nostra società, un bene essenziale del quale invece il Paese ha un grande bisogno. Per il resto, gli enti locali debbono assicurare servizi efficienti, essere prima di tutto trasparenti nella gestione. Il resto lo debbono fare i cittadini, la scuola, le associazioni operanti sul territorio e le imprese.

 

A livello di informazione e di formazione cosa potrebbe essere utile perché l’Associazione sia più attiva e coinvolgente soprattutto per i giovani? 

La cosa più utile che si può fare è aprire le porte delle Scuole, delle Associazioni, dei Comuni, quelle dei singoli cittadini, affinché si crei una piazza fisica, vera e non virtuale, dove la gente torni ad incontrarsi, dove possa riscoprire il piacere di trovarsi l’uno davanti all’altro e confrontarsi con passione e non stare su Facebook o comunicare con gli sms, ecc, ecc.

Dobbiamo riscoprire il contatto umano diretto, dobbiamo fuggire da questo isolamento esistenziale che hanno prodotto i nuovi strumenti della comunicazione moderna. Dobbiamo rimettere l’essere umano al centro degli interessi della collettività e ridare senso alle nostre esistenze. Va da se che in tutto ciò il centro del processo sono i giovani. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che andiamo verso una società dove si vive più a lungo e il “patrimonio” delle esperienze dei meno giovani non va disperso, anzi va messo, senza riserve, proprio al servizio dei giovani e della società.

 

Con quali esperti l’Associazione intendere allacciare rapporti di collaborazione?

Con il mondo dell’Università e della Scuola in generale, con intellettuali, con operatori sociali e imprenditori più attenti ai temi di uno sviluppo al servizio dell’Uomo.

 

Che cosa è questo Nuovo Consorzio Forestale, quali finalità si prefigge di raggiungere?

Sinteticamente, i Consorzi Forestali perseguo principalmente i seguenti obiettivi:

  • Sensibilizzazione territoriale sui temi ambientali;
  • Aggregazione di Comuni, di cittadini e imprese, per la tutela e la gestione dei territori agro-forestali, soprattutto per la prevenzione del degrado idrogeologico e la lotta agli incendi;
  • Salvaguardia e sviluppo delle varietà silvo-pastorali autoctone;
  • Incentivazione dello sviluppo e dello sfruttamento del bosco e dei prodotti del sottobosco;
  • Valorizzazione dell’habitat naturale

 

Quali compiti, funzioni e attività  dovrebbe avere e svolgere questo Nuovo Consorzio Forestale?

Dovrebbe aggregare Comuni, Comunità Montane, imprese agricole e cittadini, organizzandoli stabilmente al fine di pianificare le attività proprie del Consorzio.

 

In sintesi che cosa è questo Progetto Foresta Appenninica?

La filosofia che ispira il progetto è quella di trasformare l’idea che sovente abbiamo dei nostri boschi: luoghi statici, che quando va bene, li teniamo isolati e abbandonati, senza che ci sia alcun reale scambio con il contesto circostante vissuto dai cittadini. Il progetto vuole invece trasformare il bosco e la foresta appenninica in un soggetto vivo, che produce reddito. Ovviamente, il motore di tale iniziativa sono i Consorzi Forestali già operativi e quelli che, speriamo tanti, nasceranno per gestire in modo organico e oculato il territorio montano e forestale.

 

 a cura di Antonio Polselli

Adolfo Gente

(RI)SCOPRIRE LE RADICI, MATURARE L’IDENTITA’, COSTRUIRE IL FUTURO

(Pubblicato sul n. 1 di gennaio 2016 dalla rivista Nuova Informazione)

 

 

Ama la tua Terra

non la tradire

(dalla canzone In viaggio, cantata da Fiorella Mannoia)

 

 

La relativamente recente esplosione dell’informatica e l’incontenibile diffondersi delle molteplici, impensabili modalità di utilizzazione con macchine e strumenti sempre più sofisticati e precisi, in tutti i settori economici e in ogni attività umana, hanno annullato il tempo e lo spazio, provocato una spaventosa disoccupazione (soprattutto giovanile e femminile nei paesi occidentali), fatto nascere nuove professioni che presuppongono nuove competenze e messo in non cale vitali aspetti culturali, sociali e valoriali delle singole persone e delle comunità di appartenenza. La globalizzazione totale, che ne è il portato più dirompente, trasformato mercati, economie e finanze, fagocitando, novello famelico Golia, tutto il piccolo, che, per definizione, è bello. Siffatta operazione ha vanificato la dimensione umana e la genuinità nei rapporti interpersonali e interistituzionali. Ha estirpato, altresì, ogni radice che collegava al passato, alimentava il presente e concorreva a costruire un futuro migliore.

Sono nate, quindi, una nuova organizzazione sociopolitica, nuove forme di mercato, diverse scuole di pensiero in materia di economia e di finanza. E’ nata e si è sviluppata la cosiddetta new economy[1], che rappresenta, secondo il sociopedagogista Mario Pollo (Manuale di pedagogia sociale, Franco Angeli, Bologna 2015), una trasformazione non solo economica ma antropologica.

In un tale quadro, l’attivazione di nuove opportunità di lavoro è divenuta spasmodica e ha creato uno strano miscuglio fra neonate necessità e antiche, rivisitate e distorte iniziative per carenza di informazioni scientificamente rigorose, se non per malafede (si pensi al turismo religioso, al turismo culinario che si intreccia con la filiera agroalimentare e ai prodotti tipici, di origine protetta e/o controllata). Ne è divampata, scrive ancora Mario Pollo, una deleteria “mercificazione del divertimento e delle risorse culturali (arti, feste, sagre, movimenti sociali, pratiche spirituali, impegno civile) che divengono un intrattenimento individuale a pagamento”, che non solo non soddisfa ma lascia l’amaro in bocca.

Da qui il messaggio contenuto nell’Albero della Vita, simbolo dell’Esposizione Universale di Milano 2015, che, se vuole produrre frutti duraturi, deve basarsi e sorreggersi su radici ben salde affondate in un humus fertile.

La pianta senza radici, infatti, non cresce né si sviluppa o cresce male, rachitica e senza possibilità di produrre frutti o di avere una vera vita.

L’albero, anche il più rigoglioso, a cui vengono tagliate le radici, appassisce, si secca e muore soffocato e sopraffatto da quelli che, invece, le hanno e le mantengono.

Metaforicamente un proverbio canadese vuole che un albero deve avere radici per vivere bene e ali per crescere e svilupparsi. Una analoga versione dice che i genitori debbono donare ai propri figli radici per crescere sicuri e ali per volare alti, per diventare autonomi. Che è anche il compito della scuola.

La persona, che non conosce – e, quindi, di fatto non ha! – le proprie radici culturali, in quanto nessuno gliene ha mai parlato né gliele ha fatte comprendere e apprezzare, è destinata, nell’attuale mondo totalmente globalizzato, a smarrirsi nella giungla disordinata di contrastanti comunicazioni e informazioni e a essere potenziale vittima di un negativo e purtroppo dilagante relativismo.

Scoprire, riscoprire, conoscere e valorizzare le proprie radici culturali e valoriali è un tutt’uno con la ricostruzione, lo studio, la cura e la trasmissione della memoria storica, una delle cui fonti più importanti e più facilmente deteriorabili, in quanto uniche e temporalmente effimere e che, proprio per questo debbono essere sollecitamente raccolte e gelosamente custodite, è quella orale che, affidata come è al ricordo e alla testimonianza di singole persone, dura lo spazio dell’esistenza di una vita umana, sia pure localmente ben contestualizzata. In proposito, ci ha lasciato versi particolarmente significativi, ancorché giovanili, il poeta Elio Filippo Accrocca, originario di Cori (Latina), dove ora riposa avendo concluso la sua esperienza terrena giusto venti anni fa, l’11 marzo 1996.

Scrive, dunque, Accrocca

è costruito di memoria, l’uomo,

come una casa, un vicolo. Il mio nome

maturava col caldo degli agnelli.

Lo sanno i falchi della mia regione

E l’acqua, rive amate, dei fossati.

Con me cresceva l’ombra d’un olivo.

Il riferimento al nonno, questa volta non esplicito, sottolinea il perpetuarsi di una memoria storica, di cui è fatto l’uomo e che si tramanda da una generazione all’altra, preziosa eredità come la casa, il vicolo, il paese, oggi come allora quando di globalizzazione non si parlava neppure.

La memoria storica, se non costantemente costruita e ricostruita, inesorabilmente si indebolisce, si affievolisce, viene dimenticata e cade nell’oblio, con conseguenze negative inimmaginabili per la definizione di una identità culturale certa, e per positive opportunità di confronto e di dialogo, senza complessi né pregiudizi, fra persone, popoli, nazioni e paesi a livello planetario.

La memoria storica è l’humus fertile in cui affondano le radici culturali e sociali e si sviluppa l’identità personale e di gruppo, radici che vanno costantemente ricercate, scoperte e riscoperte, se si vuole – come si deve – costruire un futuro credibile e comunque possibile.

Ricercare, scoprire e riscoprire, per conoscere, riconoscere, studiare, amare, rispettare, conservare e tramandare le radici culturali e le scelte valoriali della propria comunità sociale e civica, del proprio paese, della propria nazione, del proprio Stato sono compito e responsabilità precipui della famiglia e della scuola d’intesa con i vari gruppi in cui si articola la società civile. Lo scopo, primo e ultimo, di un impegno siffatto è quello di costruire e di definire una identità certa, grazie alla quale dialogare e confrontarsi senza complessi di inferiorità, ma anche senza anacronistici atteggiamenti di superiorità, che possono sfociare in integralismi e in fondamentalismi, se non in veri e propri fanatismi e in pericolosi razzismi, con conseguenze negative e dolorose esclusioni.

È l’eterno problema del rispetto della persona e dell’organizzazione democratica dello Stato in cui i cittadini vivono e operano, problema che va affrontato e avviato a positiva soluzione partendo dalla cosiddetta microstoria, formando una reale coscienza civica e stimolando una cittadinanza attiva e una partecipazione consapevole là dove si studiano e si tenta di soddisfare le esigenze e le aspettative del proprio ambiente e del proprio tempo pensando al futuro, in una prospettiva di medio e lungo periodo.

Ma chi deve custodire, studiare e tramandare la memoria storica, che è fatta di documenti e reperti materiali e di tradizioni in genere immateriali trasmesse soprattutto oralmente? Chi integra e armonizza la macrostoria, i grossi avvenimenti internazionali, nazionali ed epocali, con la microstoria territoriale o, più precisamente, con la cosiddetta storia “locale”, dispregiativamente indicata anche come storia “minore”? Eppure, a voler utilizzare una espressione dello scrittore Giovannino Guareschi, il geniale “papà” di due immortali personaggi, paesani e universali, quali Peppone e Don Camillo, con la storia locale ci si può immergere nella quotidianità di un “mondo piccolo” che sa aprirsi egualmente al vicino e al lontano molto meglio di quanto avviene ora in un “villaggio globale” senza anima e proiettato altrove, lontano dalla propria comunità di appartenenza, che, anzi, viene irresponsabilmente trascurata, quasi ignorata.

A tal proposito si manifestano in tutta la loro gravità le vistose carenze e le colpevoli omissioni delle due principali agenzie formative, che si scaricano reciprocamente la responsabilità di una crisi tanto profonda, quanto facilmente sanabile cioè la scuola e la famiglia.

La scuola trascura la storia e la cultura locali, che la famiglia ignora in quanto nessuno gliele insegna. È un cane che si morde la coda, sembra senza alcuna prospettiva di uscirne fuori, almeno nell’immediato.

Eppure la soluzione potrebbe esserci, se solo si rispolverasse e si applicasse l’intuizione che il Legislatore ha avuto e codificato ormai oltre quaranta anni fa.

Nel 1974, infatti, con la legislazione delegata sulla scuola, fra i numerosi altri organi collegiali, vennero istituiti (D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416) i già ormai soppressi Consigli Scolastici Distrettuali, che, di fatto, non erano mai completamente decollati, oltre che per la pletoricità dei componenti, anche perché avevano molti poteri di proposta e pochi decisionali. Fra i primi (cfr l’art. 12 del citato D.P.R. n. 416/1974), era ricompresa la possibilità di formulare proposte al Ministero della Pubblica Istruzione per l’inserimento nei programmi (allora non si parlava ancora di programmazione) di studi e di ricerche utili alla migliore conoscenza delle realtà locali.

Attribuendo ai Distretti Scolastici una funzione, rivelatasi tanto delicata e importante, il Legislatore non ha assunto un atteggiamento autoritativo né una decisione verticistica, ma si è limitato a prendere atto e a normare – come scrivevo già nel 1987 nella Introduzione al mio libro su Norma (vol. n. 7 della collana “quaderni di storia e tradizioni locali” edita dal Consorzio per i Servizi Culturali di Latina) – almeno sui tre seguenti aspetti di notevole rilevanza politico-sociale e pedagogico-didattica.

In primo luogo, la definitiva presa di coscienza da parte della scuola di essere un centro di ricerca, occasione per l’avvio di un processo di ricerca, di un modo di porsi di fronte ai problemi del proprio tempo e del proprio ambiente valido per la scuola e, oltre la scuola, per tutta la vita e per ogni cultura. In secondo luogo, l’avviato processo di riscoperta e di rivalutazione del folclore, del dialetto, delle tradizioni, affinché l’uomo, per tanto tempo sradicato, in tutto o in parte, dal suo ambiente riacquisti la coscienza e il sapore di una realtà della quale, sembrava doversi quasi vergognare, mentre essa è forse l’unico motivo di orgoglio rimastogli, il vero e insostituibile punto di partenza per costruire una società a vera dimensione umana. Infine la rivalutazione, anche a livello istituzionale, degli enti locali nelle loro diverse – e oggi in via di ridefinizione – articolazioni territoriali e funzionali, onde tentare di realizzare una democrazia realmente partecipata e, quindi responsabilizzante, di favorire la maturazione di un positivo senso di appartenenza individuale e di gruppo, per poter amare, rispettare, valorizzare e non tradire – avendola conosciuta – la propria terra e quanto da essa gelosamente custodito (“se non sai dove sei, non sai chi sei”, afferma lo scrittore Greg Bear, pseudonimo di Gregory Dale Bear).

Peccato che una tanto preziosa opportunità sia stata da subito – e continui a essere – disattesa, per un complesso di concomitanti circostanze proprio da quando più impellente si è manifestata la necessità di scoprire, di conoscere, di rispettare e, per quanto possibile, di valorizzare le radici identitarie e culturali di ogni persona e delle rispettive comunità di appartenenza.

Negli ultimi decenni del secolo scorso, infatti, si sono verificati alcuni fenomeni parimenti interessanti e degni di particolare attenzione:

–          è esplosa e dilagata con forza inarrestabile, all’apparenza – e, forse, anche nella sostanza – ineluttabile, una globalizzazione appiattente e omologante, che ha cancellato e mortificato qualsiasi diversità; è come se il pianeta fosse stato avvolto da una nube scura che ha reso grigi e tutti uguali persone, animali, cose;

–           da qui l’urgenza, per continuare a vivere, di riscoprire specificità e peculiarità e di recuperare le infinite identità culturali studiando i grossi eventi planetari e nazionali (macrostoria), ma anche le piccole e non per questo meno importanti vicende territoriali e locali (microstoria);

–          la scuola italiana ha mancato siffatto, vitale appuntamento e dura fatica a recuperare il tempo inesorabilmente perduto, nonostante sia stata e continui a essere favorita dalle modifiche normative, frutto e portato del progresso delle scienze psicologiche, pedagogiche, didattiche e, perché no?, sociologiche, che hanno consentito una progressiva evoluzione, con una autonomia sempre più ampia, dagli allora vigenti programmi, centralistici e verticistici, a una flessibile programmazione, individuale e collegiale, ancorata alle singole realtà locali, per approdare alle Indicazioni, che permettono un ventaglio di scelte particolarmente ampio e articolato.

Purtroppo nello stesso periodo, in applicazione delle norme costituzionali e grazie all’ammodernamento dei mezzi di trasporto pubblici e privati, che hanno annullato le distanze geografiche e consentito una mobilità selvaggia, quotidiana e/o settimanale, e una transumanza periodica verso sedi le più disparate e, comunque, sempre diverse e distanti del personale docente e scolastico nell’accezione più ampia, lo studio della storia locale e la conseguente maturazione di una precisa identità culturale si sono andati a far benedire nella generale indifferenza. È ora si piange sul latte versato e sprecato!

Per fortuna, le vistose carenze della famiglia (anche questa sempre più etnicamente allargata e con radici identitarie e valoriali significativamente differenziate) e della scuola (che stenta a prendere coscienza e seguita a trascurare platealmente la cultura del territorio in cui vive e opera, con conseguenze disastrose) vengono colmate dalla silenziosa e non adeguatamente apprezzata opera volontaria di tanti studiosi, spesso dilettanti e privi di certe necessarie competenze, ma ricchi di entusiasmo e di tanta buona volontà, che si ostinano a cercare, scoprire, riscoprire e socializzare, per tramandarle, le radici sociostoriche e culturali del proprio paese, delle comunità di appartenenza per nascita e/o per scelta. E tutto, quasi sempre, a proprie spese (pecunia sua, come direbbero i latini)!

Sono costoro che non rendono velleitarie grandi battaglie, come quella di Papa Giovanni Paolo II, che, a suo tempo, rivendicò inascoltato la necessità di richiamare, nella Costituzione dell’Unione Europea, le radici cristiane dei popoli e delle nazioni che ne fanno parte, radici che avrebbero contribuito a definire una identità per questa Europa, attualmente sbandata e smarrita proprio per la mancanza di valori alti, certamente unificanti.

Anche la corretta gestione del territorio, pressantemente e convintamente invocata nel fascicolo numero 11/novembre 2015 della rivista mensile “Nuova Informazione”, è il portato di una precisa identità culturale e valoriale, che, in questa prospettiva, acquista pregnanza territoriale e valenza anche economica e occupazionale.

Soltanto in un simile contesto, tanto avvilente e demotivante, la Regione Lazio ha potuto permettersi di varare una buona legge, che accoglieva, senza soddisfarle, le esigenze della parte più avveduta della società civile. Si tratta della L.R. 21 febbraio 2005, n. 12 – “Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio”, approvata e resa esecutiva, ma senza essere stata mai finanziata, per deprecabili ragioni demagogiche o per ragioni burocratico-statistiche, cioè per giustificare, numeri alla mano, le scandalose indennità elargite ai Consiglieri Regionali, i cosiddetti “onorevolini” per rispetto degli “Onorevoli” componenti il Parlamento Nazionale.

L’impianto di detta legge è, però, utile e, con qualche accorgimento, funzionale alla proposta che intendo formulare a conclusione del presente scritto, denunciate le oggettive e gravi responsabilità della scuola e della famiglia.

La scuola pubblica italiana sta attraversando una favorevole stagione storica caratterizzata da massicce immissioni in ruolo di lavoratori appartenenti a tutte le categorie nella stessa occupati, da consistenti aumenti dei fondi destinati a premiare il merito dei docenti e creare le condizioni per migliorare sensibilmente la qualità dell’offerta formativa e la partecipazione attiva e propositiva al servizio sociale scolastico, infine da una crescente autonomia gestionale e didattico-organizzativa. Ciò nonostante una significativa percentuale di docenti e di dirigenti scolastici versa in uno stato di preoccupante frustrazione, dal momento che, in forza degli inevitabili trasferimenti di non breve periodo e degli spostamenti quotidiani e/o settimanali, vivono male la loro condizione di presunti “deportati” e/o di “pendolari” costretti a massacranti viaggi, spesso anche di ore e soprattutto su treni molto simili alle vecchie “tradotte” militari.

In tale stato d’animo e in una reale condizione di perenne stanchezza fisica e non solo, il dovere professionale e la volontà di conoscere e studiare, per poi poterla insegnare e far amare, la cultura della sede di servizio si sono progressivamente affievoliti fino a scomparire, ammesso che siano mai esistiti. Il fiocco alla corona, infine, è stato messo dalle sempre più frequenti, vorticose e disordinate migrazioni,  che hanno superato e fatto impallidire i “matrimoni pedagogici”, cioè i matrimoni fra docenti entrambi con retribuzioni basse propri della prima metà del secolo scorso (e io ne sono uno dei figli in quanto i miei genitori erano maestri elementari), e svuotato di qualsiasi credibilità e contenuto un antico adagio che voleva “donne e buoi dei paesi tuoi”, cioè possibilmente della stessa località o di comuni vicini, onde condividere storie, tradizioni e dialetti, la cultura in una parola.

In tale situazione, nell’immediato irreversibile, per non smarrire le radici culturali, diviene indispensabile la creazione di istituzioni, di enti e/o di strutture come quelle pensate, ma non realizzate, dalla Regione Lazio al fine di raccogliere, conservare, tramandare e quindi valorizzare dialetti e culture locali con appositi centri di documentazione e attraverso la formazione di studiosi amanti e profondi conoscitori della materia, da affiancare ai docenti curricolari in servizio pro-tempore in una determinata località quali “esperti esterni”, così come indicato dalla legge n. 107/2015, la cosiddetta “Buona Scuola”.

Sono sicuro che la soluzione prospettata è per la scuola una indiscutibile sconfitta, che mi auguro del tutto provvisoria, anche se non della provvisorietà definitiva tutta italiana. Sono parimenti convinto, però, che soltanto così le preziose culture locali non cadranno nell’oblio e si sposeranno con i contenuti della macrostoria, mentre la scuola potrà seguire il percorso classico, sempre lo stesso ma sempre nuovo, che vuole i docenti impegnati a suscitare l’interesse degli alunni, sviluppandone tutte le attitudini, affinché maturino l’identità e conquistino l’autonomia, attingendo e alimentandosi alle proprie radici, seguendo, da ultimo, ma solo in ordine di proposizione, l’insegnamento dello scrittore Erri De Luca, il quale saggiamente sottolinea che “chi vede un fiume guarda il verso in cui scorre, dove scende secondo la corrente. Ma il futuro di un fiume è alla sorgente” (da, E disse, Feltrinelli, Milano 2011).

E come è per il fiume, così è per la persona!

 

 

Adolfo Gente

 



[1] L’espressione new economy è stata utilizzata essenzialmente per definire:  “L’insieme dei fenomeni economici, ma anche sociali e culturali, associati all’impetuoso sviluppo delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (ICT, Information and Communications Technology), che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del 20° secolo. L’espressione è impiegata nel linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa, ma anche in contesti più tecnici e specializzati.”

http://www.treccani.it/enciclopedia/new-economy/